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Trattativa Stato-mafia, i giudici in Camera di consiglio

by Serena Verrecchia
20 Settembre 2021
in Speciale Trattative
Reading Time: 12 mins read
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“Negli anni ’93-’94, Cosa nostra e ‘Ndranghetahanno votato, esultato e brindato per vittoria di Forza Italia. Se poi nei mesi successivi si chiede un segnale di riconoscenza, è implicita la minaccia”.

Lo ha chiarito il Procuratore Giuseppe Fici nell'udienza di venerdì 17 al processo d'Appello sulla Trattativa Stato-mafia, giunto dopo oltre due anni al suo atto finale. Il pg, nella sua replica dopo le arringhe difensive di inizio estate, ha risposto in primo luogo alle osservazioni dei legali di Dell'Utri e degli ufficiali del Ros, tralasciando quasi del tutto quelle delle difese degli imputati Bagarella e Cinà.

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Al centro della discussione della Procura generale, i rilievi sulla sentenza Mannino, le vicende processuali e la posizione di Dell'Utri nel processo, la vicenda Napolie le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, oltre che il rapporto Mafia-appalti, definito, come pure in primo grado, una sorta di “arma di distrazione” rispetto a quelle che sono invece le tesi della trattativa.

Questa mattina, dopo le controrepliche della difesa, i giudici si ritireranno in Camera di Consiglio per emettere la sentenza attesa tra martedì e mercoledì (qualcuno dice addirittura giovedì).

Quali sono gli scenari probabili? La Procura generale ha chiesto la conferma delle condanne di primo grado, ma è difficile fare previsioni sulle decisioni della Corte. Il problema principale è rappresentato dalla sentenza di assoluzione dell'imputato Calogero Mannino, che aveva scelto il rito abbreviato ed è stato assolto l'anno scorso in via definitiva. Attualmente, per lo stesso reato ci sono sei imputati condannati in primo grado e uno assolto in via definitiva. La sentenza Mannino avrà un peso non indifferente sulla scelta finale della Corte. 

Quello sul quale i giudici sono chiamati a decidere è il reato di minaccia a corpo politico dello Stato (non la “trattativa”, che di per sé non costituisce un illecito, pur essendo moralmente esecrabile). 

In primo grado sono stati condannati a 12 anni l'ex senatore Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Mario Mori e Antonio Subranni, il medico Antonino Cinà, a 8 anni Giuseppe De Donno e a 26 il boss Leoluca Bagarella: tutti ritenuti colpevoli di aver trasmesso le minacce mafiose al governo della Repubblica, che avrebbe dovuto piegarsi alle richieste di Cosa nostra per vedere cessate le stragi. Ma se è così, aveva detto l'avvocato Padovani durante la sua arringa, qualsiasi parola proveniente da un mafioso costituisce una minaccia? Secondo il procuratore Fici, sì. I mafiosi si nutrono di segnali, anche la semplice presenza potrebbe costituire in qualche modo una minaccia. “E non aderire alla richiesta può costarti chiaro”.

Ma perché se Mannino aveva rapporti con Cosa nostra avrebbe dovuto rivolgersi al ROS piuttosto che direttamente ai vertici della cupola? E perché se Subranni era punciutunon interloquì direttamente con i mafiosi ma preferì fare riferimento a Ciancimino?

Queste obiezioni sono secondo l'accusa totalmente “illogiche e paradossali”. Il mondo di Cosa nostra non consente una facile interlocuzione al suo interno, in special modo con i vertici, quasi tutti latitanti o comunque difficilmente avvicinabili.

Quanto all'imputato Dell'Utri (di recente celebrato con una pagina di auguri a pagamento su Il Corriere della Sera), il pg non ci sta a lasciar passare l'idea di un Paese poco “normale” perché “si indaga da 25 anni sempre sugli stessi fatti”. Per Fici “nell'eloquio molto incisivo dei difensori viene smarrito il senso di questi venticinque anni. Dell'Utri è stato già condannato per associazione mafiosa”. “Non ho gradito il richiamo al Paese normale, come se il nostro Paese normale non è perché si fanno certi processi”. 

Poi viene affrontato l'argomento dei collaboratori di giustizia e delle dichiarazioni di Vincenzo Ferrara riportate da Riggio. La Procura aveva chiesto ulteriori accertamenti, ma “quel che possiamo dire su questa vicenda è che non ci si consente né di negare né di affermare che le indicazioni su Dell'Utri possano ritenersi riscontrate o che siano indicative. Certamente non possiamo dire che Riggio si sia inventato la confidenza”.

Quanto alla vicenda Napoli, per l'accusa non si tratta di un fatto trascurabile ai fini del processo, come avevano invece sostenuto le difese. Giovanni Napoli era uno dei principali favoreggiatori di Bernardo Provenzano e le circostanze insolite del mancato sequestro di materiale investigativo (floppy disk, telefoni cellulari, un computer) o della sua anomala restituzione dopo l'arresto, sollecitano più ampie riflessioni, che forse non troveranno mai una risposta concreta.

Lunedì, in ogni caso, anche il secondo grado del processo sulla Trattativa Stato-mafia conoscerà il suo epilogo. I giudici della Corte dovranno decidere se confermare tutte le condanne, se ribaltare il giudizio di primo grado assolvendo gli imputati oppure se distinguere le due diverse fasi della Trattativa (1992-93 e 1994 con il governo Berlusconi) e procedere con giudizi differenti per i protagonisti di quelle stesse vicende (gli ufficiali del ROS impegnati nella prima fase, Marcello Dell'Utri nella seconda). Alle 10.00 si partirà con le controrepliche delle difese, dopodiché la Corte si ritirerà per deliberare.

 

WORDNEWS.IT © Riproduzione vietata

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