Nell'attuale momento storico in cui perfino l'eredità di una figura come Giovanni Falcone viene pezzo per pezzo smantellata (vedi le recenti pronunce della Corte Costituzionale e quella di Strasburgo in tema dell'ergastolo ostativo), la sentenza del processo di appello sulla trattativa Stato-mafia, giorno dopo giorno, viene rivoltata come un calzino, svuotata del suo contenuto.
Un pressappochismo viscerale sta montando giorno dopo giorno sui giornali e sulle televisioni, dando per fuori di testa quello stuolo di pochi magistrati che da quasi un decennio cercano di far luce sulla fase storica più delicata e buia del nostro passato recente.
Si sente dire che la trattativa non c'è stata, che è stata l'invenzione di qualche magistrato, addirittura che se lo Stato ha trattato quella sua condotta era giusta e doverosa. La trattativa, se c'è stata, è stata cosa buona e giusta.
Curioso che la linea di pensiero comune ad un certo tipo di revisionismo storico ammetta contemporaneamente che l'indagine sulla trattativa è stata una farsa ma che contemporaneamente la stessa trattativa c'è stata e lo Stato fece bene a trattare.
Proviamo però a fare un minimo di chiarezza, sempre tenendo presente che per l'uscita delle motivazioni occorre attendere tre mesi.
Configurazione del tipo di reato.
Nel continuo ed immenso calderone della vulgata generale secondo cui in merito alla trattativa vale “tutto ed il contrario di tutto”, si assiste alla continua espressione che possiamo riassumere in questi termini: la trattativa non è reato.
Errore superficiale. L'oggetto di questo processo, la tesi dell'accusa quindi che in primo grado era stata accolta in toto, non è il reato di trattativa (è lecito trattare?) bensì la sua configurazione a livello penale, rappresentata dall'art.338 c.p., ovvero “Violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti”.
Il cuore e quindi l'oggetto del processo è andato a puntare l'attenzione sul regolare svolgimento dell'attività amministrativa e la libertà di autodeterminazione degli organi dello Stato, nel periodo che va dal 1992 al 1994, interessando in tale arco temporale i governi Amato, Ciampi e Berlusconi I.
La condotta criminosa del reato indicato dall'art.338 del codice penale deve essere eseguita per tre finalità: impedire l'attività svolta, ovvero frapporre ostacoli per evitare la prosecuzione dell'attività esercitata da corpo politico o amministrativo dello Stato; turbare l'attività svolta, cioè disturbare il normale svolgimento dell'attività, per impedire anche solo temporaneamente (nel caso in esame l'attività temporanea raggruppata nei tre governi di riferimento tra il 1992 ed il 1994), che possa essere continuata; influire sulle deliberazioni relative all'organizzazione e all'esecuzione di servizi, nel senso di creare una pressione o una suggestione in grado di orientare la volontà dell'organo verso una determinata direzione.
Il fatto c'è stato
Per la Corte di Assise di Palermo, stante il dispositivo della sentenza, i colpevoli della cosiddetta Trattativa tra esponenti dello Stato e i boss mafiosi sono solo questi ultimi. Quelli, ovviamente rimasti in vita: i vertici di Cosa Nostra, Riina e Provenzano, sono deceduti nel corso del processo di primo grado, mentre per Brusca era stata confermata la prescrizione del reato.
Ora occorre fare attenzione: gli unici condannati in sede di appello sono stati Bagarella e Cinà. Per la pubblica accusa erano tutti colpevoli (sia uomini dello stato che vertici della mafia) del reato previsto dall'art.338 c.p., quindi per aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti da Cosa Nostra: più bombe e più stragi se lo Stato non avesse allentato la presa sulla lotta alla mafia.
Il reato contestato a Leoluca Bagarella è stato derubricato in tentata minaccia al governo Berlusconi: motivo per cui la pena dai 28 anni chiesti dall'accusa è stata ridotta di 12 mesi arrivando a 27 anni. Per Antonio Cinà, il medico di Riina, sono stati confermati i 12 anni.
Quanto agli uomini dello Stato, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, vi è stata l'assoluzione perchè “il fatto non costituisce reato.”
È su questa espressione che ci si dovrebbe concentrare e che nel paese anomale come il nostro, si fa di tutto per far finta di non vedere.
Il fatto, l'aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 ed il 1994 le minacce di Cosa Nostra, c'è stato. Ma non costituisce reato in quanto, secondo la Corte d'Assise di Appello, non vi è il dolo, neanche quello eventuale.
Quindi la trattativa c'è stata, ma per gli uomini dello Stato, secondo la corte d'Appello non costituisce reato. Stabilire il perché di questo cambio di prospettiva rispetto ai giudici di primo grado, occorre attendere i 90 giorni per leggere le motivazioni.
Ma il fatto storico c'è stato: uomini dello Stato aprirono un canale di trattativa con uomini di Cosa Nostra. Per la Corte, Mori, De Donno e Subranni lo fecero ma senza l'intenzione di commettere un reato (saranno poi le motivazioni della sentenza a spiegarci il perchè).
Da qui si capisce il perché della condanna di Cinà, il postino di Riina, il quale consegnò agli uomini dello Stato il famigerato papello.
È evidente che quel foglio di carta è passato di mano in mano agli interessati all'interno dello Stato. Ma questo, occorre ribadirlo, al momento per la Corte di Assise di Appello non costituisce reato. Questa impostazione può aver subito un'influenza sul giudicato di Mannino.
Fattosi processare con rito abbreviato è stato assolto in via definitiva: secondo i giudici Mannino non chiese di trattare con Cosa Nostra ma continuò a combatterla.
Mentre per la tesi accusatoria l'ex ministro fu l'uomo che chiedeva ai carabinieri di aprire il tavolo della trattativa in quanto impaurito dalle minacce ricevute proprio da Cosa Nostra.
Dell'Utri
Assolto per non aver commesso il fatto. Per i giudici di appello non fu Dell'Utri a recapitare il messaggio estorsivo dei mafiosi a Silvio Berlusconi. Non vi è la prova che l'ex senatore avesse comunicato a Berlusconi il contenuto degli incontri avuti con Vittorio Mangano (un paio documentati). Forse la linea della Corte d'appello ha subito l'influenza dell'assoluzione in via definitiva dell'ex senatore dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa per i fatti successivi al 1992.
Sicuramente vi sono due fatti storici in merito a Dell'Utri: la sua condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver costituito l'anello di congiunzione tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra fino al 1992, rappresenta un fatto da tenere presente e ormai assodato (anche se si fa finta di non vedere).
L'altro fatto è che nel momento in cui la Corte di Assise di Appello di Palermo assolve Dell'Utri per non aver commesso il fatto, tale fatto (minaccia o attentato a corpo politico dello Stato) si è verificato.
Come si fa allora a dire che la trattativa è stata una farsa o una semplice invenzione di un gruppo di magistrati?
“Parlare con questa gente”
Un piccolo flash-back nel passato è sempre utile per tirare le fila su certi argomenti spinosi. Siamo nel 1998, aula Bunker di Firenze. Come testimone per la strage dei Georgofili viene è chiamato a parlare il Generale Mario Mori.
È in questa circostanza che per la prima volta si parla della genesi della Trattativa. Ed è Mario Mori a fornirci la strada, ricordando che nel 1992 a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio (secondo la difesa di Mori il tutto avvenne dopo le due stragi), vi fu l'incontro tra il Generale Mori e l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (un incontro che rimane un fatto storico provato).
Mori a Firenze in quel 1998 pronuncia un'espressione che se interpretata tra le righe dice molto su una certa impostazione strategica dei servizi dell'epoca, molto simile a tante altre vicende oscure che hanno costellato il passato oscuro di questo Paese.
Cita “un muro contro muro”, ovvero da una parte lo Stato e dall'altra Cosa Nostra (che in un paese normale tale delimitazione dovrebbe essere endemica).
“Ma non si può parlare con questa gente?” Questa è la domanda che Mori fece a Vito Ciancimino, come dichiarato da lui stesso in aula bunker a Firenze 23 anni fa. “La buttai lì, convinto che dicesse una cosa tipo 'Cosa vuole da me'. Invece disse che si poteva fare”.
È qui che ci dovremmo concentrare quando si parla di Mario Mori e degli uomini dello Stato di quel periodo storico.
Adesso, i giudici della Corte di Assise di Palermo ci dicono che quella trattativa configurata in una minaccia a corpo politico dello Stato, non costituisce reato per quanto riguarda gli uomini dello Stato, ma è reato invece per gli uomini di Cosa Nostra coinvolti nel processo (si attendono le motivazioni per comprendere questa giravolta di pensiero).
Un flash-back quello di Mori utile per dimostrare come di inventato e di fittizio non ci sia nulla. Che poi la verità storica e la verità processuale non vadano a collimare è una prassi che accade quasi sempre nelle aule di Tribunale, soprattutto in processi complessi come questo. Ma nulla toglie che quel muro contro muro non ci fu e che Stato e Cosa Nostra trattarono.
Clima pesante
Non c'è solo la sentenza di appello sulla trattativa e i commenti a posteriori di tutti gli esperti (e non) del settore. Vi anche altro.
Il tema dell'ergastolo ostativo ad esempio. La Corte Costituzionale, su input della Corte di Strasburgo, ha dato un anno di tempo al Parlamento per porre rimedio sul tema. Secondo la Corte Costituzionale è incostituzionale escludere dai benefici penitenziari i condannati all'ergastolo per i reati di contesto mafioso che non collaborano con la giustizia.
Interessante è la proposta in Parlamento del Movimento Cinque Stelle (un po' troppo silente dopo l'uscita della sentenza di appello sulla trattativa) in cui si prevede che sia il detenuto condannato per gravi reati alla pena dell'ergastolo di fatto ostativo a dover dimostrare di aver tagliato i collegamenti con le organizzazioni criminali, così come dovrà dimostrare anche che in futuro non vi possano essere pericoli di un ricollegamento con le stesse. Insomma: non basta la semplice dissociazione (come richiesto ad esempio da molti esponenti politici di destra e non solo).
È un tema molto delicato in cui il rischio grave, vista la vastità di linee politiche contrapposte che compongono la maggioranza dell'attuale governo, è quello di smantellare o rendere inefficace l'impianto normativo voluto da Giovanni Falcone proprio in tema di ergastolo e benefici ai detenuti, che si collega direttamente all'altro tema, visto come un mostro pericoloso da abbattere da quasi tutte le forze politiche, il regime del 41 bis.
Ecco perchè il clima è pesante: e un anno scadrà proprio in prossimità del trentennale dalle stragi di Capaci e Via D'Amelio le cui vittime (Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Vito Schifani , Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Walter Eddie Cosina; senza dimenticare le altre vittime delle bombe successive del 1993) , a causa di un pressapochismo e un qualunquismo quasi aberranti che caratterizzano i pareri post sentenza d'appello sulla trattativa, rischiano di essere calpestate e uccise nuovamente.
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2021-10-02 10:56:52
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