La Trattativa c'è stata, non c'è stata, che importa? Quel che svetta sulle pagine dei maggiori quotidiani e nel lessico settario degli adoratori della ragion di Stato è la catartica concretizzazione di un auspicio che ha serpeggiato per oltre un decennio nelle speranze più recondite di una parte del Paese: trattare con la mafia non è reato. D'altronde, dove sta scritto che lo sia? Nessuna legge dello Stato – e già questo dovrebbe dirla lunga – impedisce ai rappresentati della Repubblica di scendere a patti con la criminalità organizzata.
E, infatti, gli imputati nel processo di Palermo erano accusati del reato di minaccia a corpo politico dello Stato. Non può ritenersi lecita, diceva la sentenza di primo grado, “una trattativa da parte di rappresentanti delle Istituzioni con soggetti che si pongono in rappresentanza dell'intera associazione mafiosa”.
La minaccia ha per oggetto un “male antigiuridico” – prospettare le stragi – ed è sufficiente che sia recepita dal soggetto passivo – lo Stato -, che vedrebbe di conseguenza ridotta la sua “libertà psichica e morale di autodeterminazione”. Gli ufficiali del ROS erano accusati di essere gli “istigatori”, i “determinatori” e i “facilitatori” del ricatto di Cosa nostra allo Stato fino al 1993.
La sentenza di Appello ribalta la decisione della Corte di primo grado: “il fatto non costituisce reato”. Si dovrà attendere il deposito delle motivazioni per comprendere meglio le ragioni di una simile decisione, un argomento tanto complesso non può trovare risposta nelle righe striminzite di qualche paginetta riassuntiva del dispositivo di sentenza. Ma c'è un'espressione che non andrebbe sottovaluta e di cui, se riuscissimo a liberarci delle malevole facilonerie di chi riduce la complessità a scelta di campo, si dovrebbero cogliere tutte le allarmanti implicazioni: “il fatto non costituisce reato”. Ossia, la Trattativa Stato-mafia è pienamente lecita. Perché, come fa ad esserlo?
Le motivazioni della sentenza chiariranno – si spera – questo nodo. Ma quel che si può ipotizzare è che, per i giudici della Corte, nella condotta degli ufficiali del ROS, sia mancato il dolo, la volontà di arrecare minaccia. Subranni, Mori e De Donno, ciascuno per il suo ruolo, avrebbero cioè contattato Vito Ciancimino e intavolato il dialogo con Cosa nostra non per favorire l'organizzazione criminale e per minacciare gli organi dello Stato, ma per impedire che venissero messe in atto ulteriori uccisioni e stragi.
Pur volendo sgomberare il campo da una serie di interrogativi che restano comunque irrisolti – perché nessuna autorità giudiziaria, né di Palermo né di altre Procure, venne mai informata dai carabinieri dell'iniziativa presa con Ciancimino? Perché non esiste una documentazione che ne rechi traccia? Perché, quando ebbero certezza dei contatti di Ciancimino con i vertici di Cosa nostra, i carabinieri non si adoperarono per catturarli o metterli sotto controllo? – e accettando come vera l'interpretazione dei giudici, la sentenza resta preoccupante e rischia di dare a Cosa nostra un potere contrattuale mai messo finora nero su bianco in maniera così lapalissiana: scendere a patti con l'organizzazione criminale si può, è lecito.
Significa che se domani Matteo Messina Denaro contattasse un qualche apparato dello Stato pretendendo la totale immunità per sé e per i suoi sodali per i prossimi cinquant'anni, esibendo la minaccia di nuove stragi e omicidi eccellenti, lo Stato potrebbe lecitamente acconsentire perché eviterebbe la possibilità di nuovi morti. Se quel che resta della Cupola reclamasse legislazioni speciali, aggiustamenti normativi, benefici carcerari, amnistie e salvacondotti minacciando altrimenti di riempire il Paese di bombe, lo Stato potrebbe calarsi le brache e avallare le richieste senza pagarne alcun prezzo sul piano giudiziario – delle responsabilità morali non frega più niente a nessuno da un pezzo.
La mafia avrebbe vinto e tanto varrebbe assegnarle direttamente un seggio in Parlamento dal quale farle avanzare le proprie richieste. Siamo troppo presi della tentazione di esporre al pubblico ludibrio i pm della Trattativa "sbugiardati" dalla sentenza per potercene accorgere, ma quel “il fatto non costituisce reato” non dovrebbe farci dormire la notte.
La mafia ci vuole esattamente così: dialoganti e ambigui, permeabili e cedevoli, raggomitolati nelle nostre invalicabili “ragion di Stato”.
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2021-10-03 16:32:29
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