Passano gli anni, veloci come stelle cadenti, lasciando intatto un passato doloroso e immodificabile: sono 30 anni dalle stragi di mafia del 1992, le stragi del tritolo che hanno assassinato uomini e donne dello Stato, che hanno segnato la storia del paese, che hanno trasformato profondamente le nostre vite.
Saranno giorni di bellissime parole, di condivisioni, di ricostruzioni; ma non mancheranno retorica e ipocrisia a non finire.
Dopo Capaci e via D’Amelio, in questo paese abbiamo assistito ad un sussulto di orgoglio. Un moto civile interessò l’Italia da nord a sud: fu un risveglio dal torpore, un riaprire gli occhi troppo spesso chiusi sui mali della società, con una partecipazione totale di anime straziate dal dolore e dalla rabbia a seguito delle stragi.
Le immagini dei funerali di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro resteranno una delle scene più drammatiche della storia italiana, ma segnarono anche l’inizio di un lungo e sentito percorso fatto di impegno civico e voglia di riscatto per intere generazioni. Quei 500 kg di tritolo che, in un attimo, spazzarono via vite e speranze, riuscirono anche a ridestare una popolazione anestetizzata e inerme.
Eppure, dopo tre decenni, siamo tornati al punto di partenza.
Se è vero che coltivare la memoria è fondamentale per non commettere gli errori del passato, se è necessario raccontare ai giovani di oggi la vita e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per formare donne e uomini migliori, se abbiamo la necessità di fare tesoro di quella esperienza, tuttavia abbiamo anche l’obbligo di essere coerenti.
Piangere i morti è molto più semplice che difendere i vivi.
La mafia sanguinaria e violenta dei Riina e Provenzano ha lasciato il posto ad una mafia più silenziosa, ma altrettanto incisiva. Le infiltrazioni delle organizzazioni criminali nel mondo della finanza, della politica, delle amministrazioni pubbliche (molto spesso inquinate inesorabilmente dal malaffare), hanno preso il posto degli attentati e delle bombe.
Una collusione che si è fatta rapporto stretto, una fusione fattiva tra malavita e pezzi delle istituzioni, garantiscono una convivenza pacifica e duratura. I morti, il sangue, le bombe, fanno rumore e accendono i riflettori; meglio incidere restando nell’ombra, investendo fiumi di denaro nelle attività legali, meglio far eleggere qualche “amico” nei consigli comunali o addirittura in Parlamento, meglio essere “con” che contro lo Stato.
Una certa politica
Ecco allora che, in occasione del voto amministrativo di Palermo, Marcello Dell’Utri lavora assiduamente per assicurare sull’isola l’elezione di personaggi fidati e affiliati. Nonostante una condanna definitiva a sette anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa, l’alter ego di Silvio Berlusconi si muove tranquillamente sulla scena politica siciliana senza neanche destare troppo scalpore, mentre nel continente il suo capo (pagatore della mafia) gioca ancora a fare il leader della coalizione di centro destra.
E ancora.
Mentre aumenta vertiginosamente da nord a sud, il numero delle amministrazioni locali sciolte per infiltrazione mafiosa, i cittadini non vedono e non sentono. Non conoscono nessuno o almeno così raccontano e danno il proprio voto a personaggi che, basterebbe guardare la foto del santino elettorale, per capirne provenienza ed estrazione.
Ma si sa, negare è sempre la migliore delle soluzioni; come in una commedia all’italiana tutto si trasforma in burla. Per esempio, sembrerebbe che il consigliere comunale di Capaci Salvatore Luna (Comune sciolto per infiltrazioni mafiose proprio pochi giorni dopo la strage del 23 maggio), abbia detto durante una seduta in municipio di qualche giorno fa “Capaci è un paese di gente perbene. La mafia qualcuno dice che c’è? Che la trovasse!” Lo ha detto lui. ex maresciallo dei carabinieri: un'osservazione piena di significati.
In questi giorni verranno deposti fiori e corone nei luoghi delle stragi; ognuno racconterà un proprio aneddoto, un ricordo di quei tragici giorni; non mancherà chi mostrerà una fotografia, potendo così vantare un qualche rapporto con le vittime.
E’ tutto giusto. E’ tutto necessario, ma non basta più.
Si sta attuando la più terribile e pericolosa riforma della giustizia e sono stati proposti, da Lega e Radicali, alcuni quesiti referendari posti in essere solamente per legare le mani a quella parte della magistratura che tenta di contrastare i reati.
A proposito della legge Cartabia, magistrati come Nino Di Matteo, Nicola Gratteri, Sebastiano Ardita stanno da giorni manifestando preoccupazioni e disappunto. In un' intervista rilasciata all’Adnkronos, il consigliere del Csm Di Matteo si è così espresso: “La riforma costituisce un’ulteriore dimostrazione di una pericolosa voglia di rivalsa nei confronti della magistratura. Il segnale di un vero e proprio regolamento di conti”.
Naturalmente si fa riferimento a quella parte della magistratura che “si permette” di processare il potere, il sistema, la politica; la mafia non potrebbe nulla senza l’appoggio di amici e conoscenti messi nei posti che contano, quindi se la magistratura indaga e chiede chiarimenti, allora va fermata.
Le parole di Gratteri: «La riforma Cartabia è la peggiore che io abbia mai letto»
Per Gratteri la riforma è un disastro sul piano dei contrasti ai reati e non solo quelli legati alla criminalità organizzata; anche il suo è un giudizio totalmente negativo tanto da aggiungere che, se fossero in vita Falcone e Borsellino, ne sarebbero sconcertati.
La politica continua a non impegnarsi nel contrasto alle mafie, anzi sembra aver preso la strada contraria: promulga normative che mettono lacci e laccioli alle indagini, frenando l’azione dei magistrati, depotenziando l’azione delle forze dell’ordine e, soprattutto, tutelando colletti bianchi e rappresentanti delle istituzioni che commettono illeciti.
Naturalmente questo nuovo torpore italico, in cui sembra essere ricaduta gran parte della società civile, ha risvolti devastanti. Abbiamo assistito, solo poco tempo fa, all’inaspettato dietro fronte dell'allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s) riguardo la nomina al Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria) di Nino Di Matteo. Con un imbarazzante “non ci siamo capiti” il Ministro Bonafede avrebbe ritirato la proposta, senza aver mai spiegato ai cittadini il motivo di tale ripensamento e/o le eventuali pressioni ricevute e che lo avrebbero spinto a trovare una differente soluzione.
Scelte apparentemente solo tecnico-politiche, ma che al contrario interessano direttamente i cittadini in quanto da esse dipendono la buona gestione della giustizia e la sicurezza pubblica.
La scelta delle persone giuste nei posti giusti, potrebbe realmente cambiare le cose in tema di lotta alla criminalità organizzata.
E se la politica continua a riempirsi la bocca di belle parole per commemorare le vittime di mafia e promettendo una guerra senza limiti alla malavita, nel concreto l'azione posta in essere dai suoi massimi rappresentanti spesso ne favorisce la proliferazione.
Bloccare i processi, depenalizzare, favorire condannati e inquisiti: tutto questo non porta a nulla di buono. Così come è grave e inquietante il silenzio delle più alte cariche dello Stato, e della stragrande maggioranza dei politici di ogni schieramento, di fronte alle minacce di morte che interessano i nostri magistrati più esposti.
Nino Di Matteo e Nicola Gratteri, vivono da anni sotto scorta; questo perché la mafia e la ndrangheta hanno emesso nei loro confronti una sentenza di condanna a morte. In un paese normale (ma forse è chiedere troppo, diciamo apparentemente sano) questi due magistrati avrebbero ricevuto un trattamento diverso.
In una realtà in cui le cosche pilotano il voto, vincono appalti, gestiscono pezzi importanti di economia, i magistrati titolari delle inchieste più delicate vengono lasciati soli, non sono ascoltati, a volte diventano bersaglio di attacchi provenienti da oppositori e giornalisti non troppo liberi. Se Nino Di Matteo non è stato nominato capo del Dap, nonostante una esperienza professionale ed un curriculum indiscutibili, in questi giorni fa discutere un’altra mancata nomina: quella di Gratteri a capo della Procura Nazionale Antimafia.
Il Csm si è espresso con 13 voti (contro i sette di Gratteri) a favore del dottor Giovanni Melillo, già procuratore a Napoli, nonché capo di gabinetto dell'allora Ministro della giustizia Andrea Orlando
Non possiamo che registrare una certa amarezza, tra addetti ai lavori e parte dell’opinione pubblica. Nicola Gratteri sta portando avanti il maxi processo alla 'ndrangheta calabrese, attualmente considerata la mafia più potente al mondo. Nicola Gratteri è sottoposto a straordinarie misure di sicurezza per le gravissime minacce di morte, rafforzate proprio in queste ore (sia per lui che la sua famiglia) a seguito di nuovi inquietanti avvertimenti.
Il suo lavoro è riconosciuto in tutto il mondo, proprio come accadde per il metodo investigativo di Giovanni Falcone. Eppure la sua nomina non c'è stata. Basta analizzare il voto al Csm, per comprendere come in questo paese sia difficile cambiare le cose.
Gratteri non ha ricevuto il voto dei rappresentanti i vertici della Corte di Cassazione (primo presidente e procuratore generale); non è stato votato dai componenti della corrente di Palamara; non è stato votato da due dei tre membri indicati dal Movimento 5 stelle ( i laici Alberto Benedetti e Filippo Donati), mentre il terzo era addirittura relatore della mozione di Gratteri. Al suo posto è stato preferito (naturalmente nessuno mette in discussione la professionalità del dottor Melillo) un uomo più vicino alla politica, che ha fatto politica attiva, una personalità che ha frequentato le istituzioni.
Melillo è stato capo di gabinetto del guardasigilli Andrea Orlando quest'ultimo uomo vicino dell'ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (va ricordato che Napolitano fece "distruggere" le intercettazioni telefoniche con il ministro di allora Nicola Mancino, registrate nell'ambito del processo sulla trattativa Stato-mafia; sempre Napolitano si attivò, non sapremo mai a quale titolo, per chiamare la procura di Viterbo ed avere informazioni in merito all'omicidio del giovane urologo siciliano Attilio Manca, che operò per un tumore il boss Bernardo Provenzano, mentre era ancora latitante)
Perché Gratteri avrebbe dovuto essere eletto, magari anche all’unanimità?
Perché è un magistrato dalla straordinaria capacità investigativa, perché è libero, apprezzato e noto all'opinione pubblica; perché le minacce alla sua persona sono dovute al fatto che ottiene risultati concreti contro le organizzazioni mafiose, perché la sua attività ostacola la criminalità. Oltre a questo – e lo ha detto bene Nino Di Matteo che con lui condivide l’isolamento istituzionale – la bocciatura potrebbe essere interpretata dalla criminalità organizzata come una ennesima e pericolosissima presa di distanza, da parte delle istituzioni, da un magistrato così esposto e a rischio.
Come per Falcone, anche lui non fu voluto alla Procura Nazionale, questa mancata nomina è veramente un brutto segnale: l’isolamento dei magistrati, di questi magistrati, è “solo terreno fertile per omicidi e stragi”.
Ecco perché il trentennale dalle stragi dovrebbe avere un altro significato: non solamente memoria e celebrazioni, passerelle e parole scontate, ma realizzazione di quel sogno che Falcone e Borsellino sono stati capaci di trasmetterci. Cambiare il paese. Contrastare le mafie. Diffondere quel fresco profumo di libertà che Paolo Borsellino avrebbe tanto voluto respirare.
Piangiamo morti che non siamo capaci di onorare. Ne calpestiamo i cadaveri permettendo che, i magistrati loro eredi, siano trattati esattamente come loro: abbandonati, isolati, non ascoltati.
E allora cosa è cambiato? Poco, troppo poco.
Con gli anni sarà sempre più difficile coltivare la memoria delle stragi del 1992; per ora dobbiamo continuare a farlo, ma non basta. Se prima le mafie piazzavano il tritolo distruggendo vite e strade, adesso usano il "tritolo istituzionale": è più silenzioso, ma ugualmente pericoloso.
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2022-05-21 18:43:27
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