Quando ci si avvicina alla figura e all’opera di Vittorio Miele è inevitabile che ci si ritrovi a fare i conti, da una parte con la Storia, e in special modo con il Secondo Conflitto Mondiale, da un angolo visuale specifico, ossia Cassino, città nella quale il nostro è nato nel 1926 e scomparso nel 1999, teatro di una delle più grandi tragedie belliche che il mondo moderno abbia conosciuto; dall’altra, con l’Arte, intesa nella sua evoluzione storica, espressiva, sociale, perché ad essa si dedicherà interamente sin dalla prima giovinezza, con i primi studi, dopodiché, nella vivace Urbino del secondo dopoguerra, e a seguire nell’arco della sua intera esistenza, in varie città del mondo, per poi fare ritorno a Cassino.
L’opera di Vittorio Miele vive su due piani, quindi, il pressoché totalizzante interesse artistico e la memoria storica, data la sua condizione di testimone del dramma della guerra.
Infatti, un momento cruciale che foggia la sua personalità e intorno al quale ruota la sua visione del mondo, è senza dubbio la scomparsa dei suoi affetti più cari, avvenuta durante gli sconvolgenti bombardamenti che hanno ridotto in macerie l’Abbazia di Montecassino, devastato la città, e quindi con esse un’intera civiltà che affondava le sue radici nella storia di un popolo antico, come pure del pensiero, della scrittura e della vita comunitaria. Tale evento, storico e personale, si impone nella visione pittorica del Nostro, senza però tramutarsi mai in un’urgenza di ordine prettamente tematico, piuttosto come epifania di per sé rivoluzionaria e sovvertitrice: agli artisti come Miele, in quel dato periodo storico, non restava che una presa di coscienza di quegli accadimenti, traslati dal piano individuale a quello collettivo, rendendoli universali, poiché quegli eventi avevano sollecitato conflittualità e messo a nudo l’essere umano, al contempo vittima e carnefice; come scrive Vittorini, uomo e non uomo.
Ovviamente, dinanzi a tale scenario, l’artista Miele, tra gli altri, è stato costretto a una virata espressiva, a una deviazione stilistica che ha riscontri nelle esperienze più attuali dell’arte e della cultura europea e mondiale della seconda metà del XX secolo.
Un’arte dal codice linguistico nuovo. Ma cosa significa nuovo?
Ebbene, ciò che conta, per Vittorio Miele – come per diversi artisti del suo tempo, tra i quali ricordiamo, per affinità, il piemontese Carlo Levi e il russo naturalizzato francese Nicolas De Staël, tra altri – è lo scarto rispetto alla norma, la ricerca di un conflitto tutto espressivo, per tentare un’unione tra gli opposti, un sodalizio tra i conflitti, con il fine di esprimere in una unità di significato le contraddizioni del presente e gli insondabili enigmi dell’animo umano. Una delle conseguenze più immediate ed evidenti è la perdita di ogni interesse per il realismo, per il descrittivismo, per dare piuttosto spessore e rilievo al dato lirico, che sarebbe il particolare nella sua carica enigmatica e metaforica. Miele, dunque, esploratore nel particolare di una sorta di elliottiano correlativo oggettivo, espressione dello stato d’animo dell’artista e con esso dello spettatore complice e assorto. Per questo la sua pittura appare animistica ed emozionale, poiché movimenta dal di dentro forme e colori, piegati al senso universale della loro rappresentabilità. Infatti, quando osserviamo un paesaggio di Miele, per esempio, ci rendiamo conto che si tratta sempre di paesaggio interiore, dell’anima, bloccato nel tempo e nello spazio, trattenuto in una geometria sovente aspra, concepita per blocchi, ma che in verità partecipa dello stato d’animo del suo creatore e si ravviva nello sguardo partecipe dello spettatore; del resto, i titoli stessi denunciano la loro natura emozionale, concorrendo alla creazione di una nuova e mai esasperata metafisica: si pensi a Quietitudine, Sensazione, oppure Raccoglimento – echeggiante a tratti un certo Carrà o le nebbie veneziane di De Pisis – o Arido Sud – che risveglia le pagine roventi e liriche di scrittori come Alvaro e Silone, oltre le trame pittoriche e letterarie del già citato Levi, come pure l’eredità materica di artisti come Dubuffet e Fautrier –.
E così per i ritratti/autoritratti: nell’avvolgente dinamismo mielano – espressionistisco e pre-giottesco, tendente al rilievo della componente umana per tratti essenziali – la figura arriva a distinguersi per una residua convenzionalità della visione, per cui un volto è sempre anche un paesaggio, così come ogni paesaggio contiene in sé un suo volto.
È più che evidente, perciò, che quanto accaduto nel ’44 a Cassino ha lasciato un segno nell’uomo e nell’artista, con il suo linguaggio scabro, spoglio come i resti dei muri divelti dalle bombe, in alcuni casi violento, anche se con la levità e il lirismo di un primitivo minimalismo cromatico. Minimale e silenzioso, potremmo dire: una pittura del raccoglimento, della solitudine, del ricordo e soprattutto della riflessione.
Infatti, per quanto si possa, si voglia e si debba legare il suo operato, come già rilevato, al dramma storico della guerra, a prevalere è in fondo la spiritualità che la rielaborazione di quella tragedia attiva e mette in moto, fino a prendere il sopravvento. La quieta partecipazione al quotidiano è un’azione compiuta in solitudine, amara, ma anche benigna, per la possibilità che offre di distaccarsi dalle cose, per meglio vederle. Vedere cosa? O meglio, vedere dove? Evidentemente Miele non smetterà mai di vedere la Cassino della guerra: il 15 febbraio del ’44, come già ricordato, su Cassino si abbatte l’orrore, e il giovanissimo Vittorio vede svanire d’un tratto il mondo domestico che scandiva la sua vita innocente. Da allora è come se si ritrovasse chiuso in un silenzio spia di una ferita insanabile, che tuttavia riesce a vincere per mezzo della pittura.
Tenta un accordo, un dialogo, che si riconosce per esempio nel post-impressionismo, essendo stata, quella dell’Impressionismo, per Miele come per molti artisti del ’900 italiano, una pittura liberatoria, catartica, capace di superare la materia, per raggiungere lo stadio più intimo e segreto delle cose e degli individui. L’artista cassinese è sempre stato affascinato dalla estrema modernità della pittura degli Impressionisti, dal modo non consueto di leggere il presente con lo sguardo proiettato nell’alterità, nell’oltre: da qui la necessità di una pittura giocata sul filo dell’impressione diretta, ricca di una inevitabile e costante rivisitazione dell’io. Un dato acquisito, perciò, è che la qualità della pittura di Miele non consiste in un racconto letterale, descrittivo o didascalico, bensì nella incandescenza morale, nella caratura poetica, estrinsecata in un segno tagliente, duro e disarmante, come una ferita che si tramuta in feritoia.
Egli è, dunque, più poeta che narratore. Da tutto ciò si può dedurre quanto il doveroso recupero della sua opera in una dimensione storica possa essere valido, per noi posteri, laddove per lui la storia doveva essere piuttosto una condanna, un assillo: l’anima storica viene, se non assorbita, quanto meno mitigata, calmierata dal sentire pittorico, in un raffronto, quasi scontro, temporale e psicologico, che poi offrirà la cifra del suo spessore intellettuale e artistico. Quella di Vittorio Miele è stata una vita che si è ritrovata allo stesso incrocio di una moltitudine di genti, che esposta alle sole parole di quella memoria si è riconosciuta di soprassalto in una nuova tristezza, in una rinnovata e disarmante malinconia. Una società che per una parte ha tentato la restaurazione, creando oggetti e spazi incapaci di esprimere una durata, dall’altra ha optato – in campo specificamente artistico – per l’informale.
Perché l’informale? Perché, al di là della scelta stilistica, gli individui del secondo dopoguerra sono lacerati, dilaniati dentro, anche quando non traspare in superficie. Portano dentro un dolore. Quella di Miele è una pittura del dolore?
Egli ritiene ci siano fattori che rendono tutti gli individui referenti temporanei di storie già vissute, con eventi che formano e sconvolgono la propria esistenza. E la sua è un’esistenza come quella di molti, che hanno vissuto la violenza, la sopraffazione e l’intolleranza, e per gli anni a seguire ha dovuto sicuramente rivivere tragedie, per cui si può sostenere non abbia cercato di realizzare una pittura cosiddetta del dolore, ma abbia semplicemente dipinto il suo diario più intimo. E se dolore, in questo diario costituito di forme e colori, troviamo, non è solo nei copri e nei volti, nei paesaggi martoriati dalla guerra, ma anche nella solitudine degli oggetti, nelle stanze solitarie, come pure nelle folle grottesche e anonime che popolano le vie delle città del mondo. Il dolore, quindi, ha molteplici allocazioni e lo esprime con un fare e un sentire pittorici, tanto che i ricordi prendono sovente le sembianze dei contadini di un sud senza confini o di città come Parigi, rivissute con i fantasmi di un tempo che non è più.
L’arte di Miele, infatti, traduce un rimpianto che porta dentro le sue cadenze, che sono poi le chiavi per ripensare il passato. Passato collettivo, ma principalmente individuale: il piccolo Vittorio, non del tutto ignaro delle ragioni che turbavano i suoi genitori, cercava già nei segni e nei colori, evidentemente, una via d’uscita, una ragionevole forma d’evasione, una forma di tranquillità. Non è da escludere che il suo lungo cammino artistico abbia avuto inizio proprio per la volontà di depistare ansie ed esorcizzare paure. Un lungo cammino scandito da numerosi viaggi: probabilmente il suo animo nomade, il suo istinto esplorativo, risponde prima di tutto al desiderio di ricostruire l’immagine perduta di suo padre, ripercorrendo i suoi itinerari, specie quelli compiuti nell’America prima della guerra.
Nelle sue peregrinazioni troviamo gli idiomi dell’Europa dell’Est, le mostre a Detroit, Birmingham, Toronto, Montreal, e quella suggestiva pausa in una comunità di artisti in Yugoslavia. Viaggiare per andare oltre, anche oltre il dolore. Vittorio Miele, come si è detto, insieme ad altri artisti del suo tempo, si distingue per un originale sentire pittorico che si fa testimonianza. Egli affida all’arte il compito di tenere viva la memoria, perché per mezzo di un uso consapevole delle forme l’arte diventa lo spazio della riflessione collettiva, un laboratorio di conoscenza e coscienza critica.
All’origine di tutto, dunque, quella offesa, al tempo della guerra, della quale ogni opera serba traccia, anche quando non propriamente espressa, tradotta in quella umanità vergine e vera che si può pensare dover o poter rispondere a una sorta di utopia della liberazione. Una liberazione che, come dimostrano le struggenti opere della testimonianza, avviene innanzitutto sul piano espressivo, ormai frantumato in una chiave informale ed espressionistica, che racconta solo dei sentimenti, turbamenti, senza più alcun legame con la tradizione.
Miele, attraverso il colore e la luce, conferisce alla superficie pittorica volume ed espressività, grazie all’accostamento di ampie e spesse superfici a definire rapporti e contrasti, mettendo in moto la fantasia e l’intuizione: in queste superfici deflagrate il nero porta verso il nulla, e così il bianco, mentre i colori conducono in infinite direzioni, e Miele è in quel nulla, come nelle molteplici possibilità di essere.
Da qui uno dei grandi pregi della mostra La casa negli ulivi, con la sua originale e puntuale attenzione ai paesaggi di Vittorio Miele, in grado di condensare sul piano evocativo, estetico ed emozionale, tutta l’evoluzione della poetica e della tecnica pittorica dell’artista cassinese. Miele paesaggista ha l’istinto del poeta, come pure la sua condanna e la cura che lo affranca. Nel destino avverso, in virtù del prolifico ripiego melanconico, l’artista apre gli occhi sul mondo possibile e si lascia penetrare dal mistero del reale, dal suo pieno di immagini e sensazioni, che riveste dei pensieri che sopraggiungono spontanei e incerti. Le pitture di paesaggio del Nostro sono così caratterizzate da residui di realtà orchestrati in cromie ritmiche e contrastate, come se l’artista cercasse, prima ancora che una forma, uno spazio entro il quale vagare, per annullarsi e magicamente ritrovarsi, come perso nel tutto in cui persiste l’invisibile.
In quegli spessi strati di materia si condensano toni drammatici originati da timbri cromatici in cui predomina l’assoluto metaforico dell’esistente: niente persiste per ciò che oggettivamente è, ogni violenza si placa e le superfici s’illuminano d’attrito, fino a effondere nella stasi e nel movimento melanconia e serenità, solitudine e silenzio. La tavolozza del Miele paesaggista si depura nei colori rischiarati, stesi entro forme larghe e semplificate, lavorate come superfici piatte e continue, condensate in sagome angolari e spigolose, a dettare nel frammento circolarità e dinamismo. Osservando i suoi paesaggi ci si rende conto di quanto questi siano sempre la rappresentazione di altro, semplificato nella resa degli elementi naturali attraverso fragili superfici di colore, in una spinta verso la rarefazione, la luce e la sua assenza.
Per questo nei paesaggi troviamo l’essenza pittorica di Miele: in Muro, per esempio, con il suo cenno di mediterranea e genuina energia, su una porzione cementizia di contaminata freschezza, sulla quale pare muoversi la vegetazione cadente; in Primavera, incantevole nei due casamenti che fuoriescono con colori non filtrati da disordinati e liberi elementi naturali; come pure in Paesaggio ciociaro, forgiato nell’architettura di un bianco livido, che si staglia in un ipnotico paesaggio mosso e dai toni forti e caldi, caratteristico dell’Italia centro-meridionale; oppure in Crepuscolo, dipinto oscuro, concepito per blocchi spezzati d’irrealtà primigenia, precipua del momento in cui sulla porzione di mondo osservata s’invera una sottrazione di luce.
E ancora, nel tenero tremore dell’invernale Prima neve, o nel caldo brivido del frastagliato Nevicata, tutti dipinti a tema paesaggistico, tra altri, che raccontano della tenacia con la quale il Nostro arriva a comprendere in che modo significare la realtà da una prospettiva di luce e verità pari a quella della meditazione: tutto ciò che si vede non esiste, poiché non corrisponde a una natura sorpresa nella sua epifania, bensì a un correlativo coltivato nella memoria e nello studio che vela, come pure nella riflessione che innesta e germoglia l’imperscrutabile. Per cui la materia si fa sfuggente e leggera, e per un istante si scioglie nell’animo del suo creatore, impegnato nel ricreare se stesso, riconoscendosi custode del mistero di tutte le cose.
Si è scritto che nella pittura di Miele un volto è sempre anche un paesaggio, così come ogni paesaggio contiene in sé un suo volto. Ecco, allora, che la mostra La casa negli ulivi ha il merito di restituirci il volto archetipico di uno degli artisti più emblematici del Novecento italiano, quello segreto, scorto in contemplazione della persistenza del non visibile nel paesaggio della sua anima e di quella del mondo. Per questo la mostra appare come una sorta di epopea catartica, divisa in tanti atti quanti sono le opere, in una rappresentazione che contiene il tempo dominato dal disagio e dall’oscurità, per poi tramutarsi in luce e in urgenza di fuga dal dolore e dalla perdita, lontano dal regno dell’incubo e dell’alienazione, per una redenzione universale dell’uomo e dell’umanità. Luce e tenebre sono una cosa sola, il discrimine è la persistenza dell’una o dell’altra, ignoto al nostro sguardo, noto al nostro animo.
“Vittorio Miele. La casa tra gli ulivi”
Comune di Castro dei Vosci (FR) – Assessorato alla Cultura
Centro storico, Torre dell’Orologio
22 luglio. 11 settembre 2022
A cura di Umberto Cufrini
Testo critico di Giuseppe Varone
Inaugurazione 22 luglio ore 18.30
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2022-07-14 12:00:00
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