RITENUTO IN FATTO
- L'ipotesi di accusa.
1.1. Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo, con decreto emesso in data 7 marzo 2013, ha disposto il rinvio a giudizio di Salvatore Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Biagio Bagarella, Antonino Cinà, Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Calogero Mannino e Marcello Dell'Utri, unitamente a Bernardo Provenzano, giudicato separatamente, per rispondere del reato contestato al capo A) dell'imputazione di violenza o minaccia a un corpo politico, di cui agli artt. 81 cpv., 110, 338 e 339 cod. pen., art. 7 d.l. n. 152 del 1991, commesso a partire dal 1992, in Palermo e Roma.
1.2. Secondo l'ipotesi di accusa, gli esponenti di vertice dell'associazione mafiosa denominata "cosa nostra" Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Biagio Bagarella, Giovanni Brusca e Antonino Cinà sarebbero gli autori del delitto di minaccia ad un corpo politico, perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, avrebbero, in tempi diversi, anche mediante l'intervento di Vito Ciancimino, minacciato il Governo della Repubblica, turbandone l'attività, a partire dal 1992 e sino al 1994, al fine di ottenere «benefici di varia natura».
I benefici richiesti avrebbero riguardato l'esito di importanti vicende processuali (la revisione del C.d. maxiprocesso), la mitigazione della legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata e l'attenuazione del trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione, anche mediante il superamento del regime di estremo rigore introdotto dall'art. 41-bis della l. 26 luglio 1975, n. 354 (Legge sull'ordinamento penitenziario).
La minaccia mafiosa sarebbe consistita nel prospettare l'ottenimento di tali benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia stragista di violento attacco alle Istituzioni.
Il «ricatto mafioso» sarebbe stato prospettato ad alcuni esponenti delle istituzioni, Carabinieri e politici, perché ne dessero comunicazione a rappresentanti del Governo» (pag. 12 della memoria a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio del Pubblico Ministero del Tribunale di Palermo) e, in particolare, agli "uominicerniera" ovvero Antonio Subranni, Comandante del Raggruppamento Operativo
Speciale dei Carabinieri (R.O.S), Mario Mori, Vice Comandante del R.O.S., e Giuseppe De Donno, Ufficiale addetto al R.O.S., nonché i politici Calogero Mannino e Marcello Dell'Utri.
1.3. Secondo l'ipotesi di accusa, Cinà avrebbe curato i contatti tra Vito Ciancimino e i latitanti Riina e Provenzano nella fase dell'interlocuzione tra Ciancimino, Mori e De Donno, veicolando all'ex sindaco di Palermo le minacce e le richieste di "cosa nostra".
Bagarella avrebbe partecipato alla prima fase della trattativa e, di seguito, dopo la carcerazione di Riina, unitamente a Giovanni Brusca, avrebbe prospettando al Capo del Governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite dell'affiliato a "cosa nostra" Vittorio Mangano (medio tempore deceduto) e di Marcello Dell'Utri, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti all'associazione mafiosa denominata "cosa nostra".
Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno avrebbero concorso nel reato di minaccia ad un corpo politico mediante tre distinte condotte:
- contattando, dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, Vito Ciancimino, nella sua veste di tramite con uomini di vertice di "cosa nostra" e "ambasciatore" delle loro richieste, instaurando così un canale di comunicazione con i capi del predetto sodalizio criminale, finalizzato a sollecitare eventuali richieste per far cessare la strategia omicidiaria e stragista;
- favorendo lo sviluppo della "trattativa" fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall'altra, all'esercizio dei poteri repressivi dello Stato;
- assicurando, altresì, il protrarsi dello stato di latitanza di Bernardo Provenzano, principale referente mafioso di tale "trattativa".
Secondo la pubblica accusa, tali condotte avrebbero agevolato la minaccia rivolta allo Stato di prosecuzione della strategia stragista e, al contempo, rafforzato i responsabili mafiosi nel loro proposito criminoso.
A Marcello Dell'Utri si è, invece, contestato di essersi proposto e attivato, in epoca immediatamente successiva all'omicidio Lima e in luogo di quest'ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di "cosa nostra" per le questioni connesse all'ottenimento dei benefici sopra indicati, di aver rinnovato tale interlocuzione con i vertici di "cosa nostra", in esito alle avvenute carcerazioni di Vito Ciancimino e Salvatore Riina, e di aver trasmesso al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi il messaggio ricattatorio ricevuto nella primavera del 1994, consistito nella richiesta al Governo di emanare provvedimenti favorevoli all'organizzazione criminale, come condizione ineludibile per la cessazione della stagione stragista.
1.4. Il reato di violenza o minaccia a un corpo politico è contestato come aggravato per tutti gli imputati ai sensi degli artt. 61, primo comma, n. 2, 339, secondo comma, cod. pen. e art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991 n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1992 n. 203, in quanto il fatto sarebbe stato commesso in più di dieci persone riunite, al fine di avvantaggiare l'associazione mafiosa denominata "cosa nostra", nonché per essersi avvalsi della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva e all'ulteriore scopo di assicurare ai membri dell'associazione mafiosa il prodotto e l'impunità di reati precedentemente connessi.
A De Donno, Mori e Subranni è, inoltre, contestata l'ulteriore aggravante di cui all'art. 61 n. 9 cod. pen., per aver commesso il fatto con abuso dei poteri e con violazione dei doveri inerenti alla loro qualità di pubblici ufficiali.
Nei confronti di Bagarella, Brusca, Provenzano e Riina sussisterebbe, inoltre, l'ulteriore aggravante di cui all'art. 61 n. 6 cod. pen., per aver commesso il reato durante il tempo in cui erano in stato di latitanza in relazione al delitto di associazione mafiosa e a numerosi altri specifici delitti-fine.
1.5. Il reato di cui al capo A), secondo l'ipotesi di accusa, sarebbe stato commesso in concorso anche con ignoti e con Vincenzo Parisi, all'epoca Capo della Polizia, e Francesco Di Maggio, all'epoca Vicedirettore generale del Dipartimento Amministrativo Penitenziario (D.A.P.) del Ministero della giustizia, entrambi deceduti.
Nell'imputazione figura anche Calogero Mannino, cui si è contestato di aver contattato, a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati infoinvestigativi al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a "cosa nostra" e aprire la "trattativa" con i vertici dell'organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di "cosa nostra" per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista, già avviata con l'omicidio di Salvo Lima, e che aveva inizialmente previsto l'eliminazione tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra i quali lo stesso Mannino.
L'imputato, inoltre, avrebbe esercitato, in epoca successiva, e in relazione alle richieste di "cosa nostra", indebite pressioni, finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all'art. 41-bis ord. pen.
La posizione di Mannino è, tuttavia, stata separata dal Giudice dell'udienza preliminare dal presente processo, in quanto l'imputato ha chiesto di essere giudicato nelle forme del rito abbreviato.
All'esito di tale giudizio, con sentenza emessa in data 31 ottobre 2016, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo ha assolto Mannino «per non aver commesso il fatto».
Tale sentenza è stata confermata dalla Corte di appello di Palermo del 22 luglio 2019 ed è divenuta irrevocabile, in quanto il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Palermo è stato dichiarato inammissibile dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 5621 dell'Il/12/2020.
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