«Assolto perché il fatto non sussiste» è stata la sentenza dello scorso gennaio della prima sezione penale del tribunale di Catania nei confronti dell’editore Mario Ciancio Sanfilippo. Parte civile nel processo la famiglia di Beppe Montana, commissario della squadra mobile di Palermo assassinato da Cosa Nostra il 28 luglio 1985. Nel processo di primo grado è stato citato anche un episodio del 1985 legato alla memoria di Beppe Montana e La Sicilia, quotidiano di cui è editore Sanfilippo: la mancata pubblicazione a tre mesi dall’assassinio del necrologio con un messaggio di disprezzo «alla mafia e a tutti i suoi anonimi sostenitori».
Il 15 ottobre scorso la Procura di Catania ha presentato appello, firmato dall’aggiunto Agata Santonocito, all’assoluzione dell’editore. Non ricorreranno in appello, invece, i familiari di Beppe Montana che esprimono fiducia e apprezzamento per l’operato della Procura ma non per certi settori della società catanese.
Le motivazioni sono state rese pubbliche in una conferenza stampa tenuta dall’avvocato Goffredo D’Antona e da Dario Montana, fratello del commissario di polizia assassinato dalla mafia, la cui videoregistrazione è disponibile sul sito di Radio Radicale qui https://www.radioradicale.it/scheda/743779
Sono disgustati da un certo mondo dell’informazione, da associazioni antiracket e da un comportamento diffuso in città, hanno affermato D’Antona e Montana. Ha attaccato quel che ha definito un «clima culturale» e una «città che è abituata a girarsi dall’altra parte» il fratello di Beppe Montana. Un clima e un girarsi dall’altra parte a cui non sono estranei associazioni «anti racket».
Le virgolette non sono casuali e non solo perché citazione delle parole di Dario Montana. Sono parole e riflessioni, amare e sconfortate, che esulano da una vicenda e raccontano molto dell’Italia intera e della società che troppo spesso diventa difficile considerare civile. L’Italia è il Paese delle parate, delle retoriche, delle memorie (a comando) e delle commemorazioni costanti. Diluvio di occasioni in cui si è tutti Giovanni Falcone, prima ancora tutti Peppino Impastato, poi tutti Paolo Borsellino, Rita Atria, Carlo Alberto Dalla Chiesa e via via sciorinando tutto un rosario sterminato. In questi giorni, siamo nell’imminenza del 25 novembre, qualcuno arriverà anche a dire che siamo tutti donne vittime di violenza.
Parole vuote, che non significano nulla, troppo spesso ipocrite e risciacquature delle (non) coscienze in un Arno vuoto e piatto. Come dimostra la reale realtà di questi anni e di altri passati. Il Paese della retorica, il Paese del “siamo tutti…” è lo stesso che abbandona, isola, delegittima, gira la testa dall’altro lato di fronte vicende – dalla strage di Ustica alla morte di Rita Atria a tante altre – e lotte per verità e giustizia veri, reali, autentici, totali e completi. Arrivando persino ad esprimere fastidio e a vantarsi di voler tentare di ostacolare o ignorare. È il Paese dei “sistemi” sorti intorno a supposti “paladini”, di un’antimafia buona un giorno per apparire anti sistema e l’altro a ottenere fondi pubblici mangiando a sette ganasce, di associazioni o supposte tali in cui si fa carriera apparendo senza mai sporcarsi le mani e senza mai rischiare nulla, di funzionari dello Stato che hanno scheletri nell’armadio e zone grigie in abbondanza (che la metà sarebbe già troppa) e si ergono a moralizzatori e pomposi arringatori contro così infinite che non finiscono mai anche se non vengono disfatte di notte come la tela di Penelope. E l’elenco potrebbe continuare per ore. Nomi, cognomi, atti e fatti che sono sotto gli occhi di tutti, ben conosciuti.
Chi conosce e ha il coraggio di non omologarsi, di non amalgamarsi sa benissimo quali sono. Così come lo sanno gli ayatollah dell’interesse particolare spacciato per pubblico, le code di paglia da “professionisti dell’antimafia”. Chi non lo sa perché chiude entrambi gli occhi e continua a chiudergli gli si può sbattere in faccia ogni fatto e atto ma rimarrà sempre come le tre scimmiette e Arlecchino al cubo.