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“Italia, le verità negate: quando il giornalismo resiste, la memoria vive”

L'intervento del nostro direttore Paolo De Chiara (Campobasso, UNIMOL): un viaggio tra stragi, depistaggi, giornalisti assassinati e memorie tradite. Da Portella della Ginestra a Lea Garofalo, da Falcone e Borsellino a Pasolini e Pantani: l’Italia raccontata attraverso il silenzio del potere e il coraggio dell’informazione. Il giornalismo è l’ultima trincea della verità.

by Redazione Web
20 Maggio 2025
in Approfondimenti
Reading Time: 20 mins read
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«Io so. Ma non ho le prove.»

Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 14 novembre 1974

«Io so i nomi dei responsabili delle stragi. Io so i nomi dei colpevoli del golpe, dei colpevoli delle trame nere e delle trame rosse. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe, e io so il nome di chi ha manovrato, di chi ha diretto, di chi ha protetto. Io so. Ma non ho le prove.»

Pasolini non lanciava solo un grido civile: indicava un metodo. Sapere, anche senza carte bollate, attraverso coerenza, analisi, contesto, logica. Un metodo che spaventa il potere, perché lo priva della sua unica arma: il controllo del racconto.

In questo Paese, troppo spesso, la verità è un’opinione e la menzogna è una notizia.

Viviamo in uno strano Paese “orribilmente sporco”, come diceva il poeta. Un Paese senza memoria è un Paese senza storia.

E allora rinnoviamola questa Memoria.

Capaci e via D’Amelio: stragi, depistaggi e trattative

Il 23 maggio 1992, alle ore 17:58, sull’autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani saltano in aria. Circa 500 kg di tritolo collocati in un tunnel sotto l’asfalto. Una scena di guerra. Uno Stato colpito al cuore.

Il 19 luglio dello stesso anno, Paolo Borsellino viene ucciso da un’autobomba in via D’Amelio, a Palermo, insieme agli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

A distanza di 57 giorni, due tra i più grandi magistrati italiani vengono eliminati. Entrambi sapevano. Entrambi erano rimasti soli. Entrambi stavano indagando su connessioni indicibili tra Cosa Nostra, politica e apparati dello Stato.

Le anomalie e i depistaggi:

  • Servizi segreti presenti sulla scena:
    In via D’Amelio, pochi minuti dopo l’esplosione, vennero visti alcuni uomini senza pettorina né autorizzazione, poi identificati come appartenenti ai servizi. Chi erano? Cosa cercavano? Nessuno ha mai dato spiegazioni ufficiali convincenti.
  • L’agenda rossa scomparsa:
    Paolo Borsellino portava sempre con sé una agenda rossa, in cui annotava appunti riservati e personali. L’ultima volta fu vista nelle sue mani il giorno dell’attentato. Sparita nel nulla dalla sua borsa ritrovata integra sull’auto esplosa. Mai più rinvenuta. Per i familiari – in primis Salvatore Borsellino – è la prova di un mistero rimosso.
  • Depistaggi e falsi pentiti (Scarantino):
    Le prime indagini sul massacro di via D’Amelio puntarono su Vincenzo Scarantino, piccolo delinquente di borgata, indicato come l’autore materiale dell’attentato. Le sue dichiarazioni vennero utilizzate per anni. Solo molto tempo dopo si scoprì che era tutto falso: Scarantino fu indotto a confessare cose mai accadute, mentre i veri esecutori restavano liberi. Il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana.
  • La trattativa Stato-mafia:
    Dopo la strage di Capaci, esponenti delle istituzioni iniziarono contatti con Cosa Nostra. L’obiettivo era “fermare le stragi”. In cambio: la revisione del carcere duro (41 bis), l’attenuazione delle leggi antimafia, e il ridimensionamento dei pentiti. Una trattativa portata avanti anche da carabinieri del ROS e politici, secondo alcune sentenze. Paolo Borsellino potrebbe aver saputo della trattativa e potrebbe essere stato eliminato proprio perché ostile a qualsiasi dialogo con i boss.

Falcone e Borsellino non sono solo vittime della mafia. Sono vittime dello Stato che non li ha protetti, di colleghi che li hanno isolati, di politici che li hanno usati prima per delegittimarli, poi per COMMEMORARLI.

E ci siamo fermati alle commemorazioni…

La delegittimazione prima, l’eroismo dopo.

Giovanni Falcone, fino al 23 maggio 1992, fu per molti un bersaglio più che un simbolo. All’interno della magistratura lo accusavano di essere troppo “personalista”, di accentrare le inchieste, di voler primeggiare. Lo chiamavano, con malcelato disprezzo, “il giudice star”, “l’uomo da copertina”. Il CSM gli negò la guida dell’Ufficio Istruzione, preferendogli Antonino Meli, figura molto più tiepida nella lotta alla mafia. Una decisione che lo isolò profondamente.

Anche parte della stampa contribuì: editoriali sprezzanti, vignette, accuse di protagonismo. Alcuni giornali insinuarono persino che “se l’era cercata”, perché aveva “sfidato troppo” la mafia. Solo dopo la sua morte, Falcone fu trasformato in un eroe nazionale.

Paolo Borsellino visse lo stesso percorso. Venne lasciato solo. Denunciò pubblicamente gli accordi indicibili e l’ambiente masso-mafioso-istituzionale. Disse chiaramente di temere un attentato imminente. Nulla fu fatto. Anche lui è stato celebrato solo post mortem. Il Paese che li aveva isolati in vita, li ha canonizzati da morti.

La trattativa Stato-mafia: una verità scomoda

Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’Italia non fu solo attraversata dal dolore e dalla paura. Dietro le quinte si muoveva qualcosa di ancora più inquietante: un dialogo tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra. Non per combatterla, ma per trattare.

L’obiettivo, almeno ufficialmente, era fermare la stagione delle bombe. Ma a che prezzo?
Secondo le indagini della Procura di Palermo e la sentenza di primo grado del 2018, alcuni esponenti delle istituzioni — ufficiali del ROS dei Carabinieri, politici e intermediari — avrebbero avviato una negoziazione con i vertici mafiosi, tramite il boss Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo.

Esiliato, qui, in Molise. Precisamente a Rotello (Cb)

Cosa chiedeva la mafia?

  • Allentamento del 41-bis, il carcere duro per i mafiosi detenuti
  • Revisione delle leggi sui collaboratori di giustizia (pentiti)
  • Ridimensionamento del maxi-processo
  • Fine delle confische patrimoniali
  • Modifiche al codice antimafia

In cambio, Cosa Nostra avrebbe fermato le stragi e le bombe nel Continente (Roma, Firenze, Milano)

I protagonisti istituzionali coinvolti:

  • Mario Mori e Giuseppe De Donno (ROS dei Carabinieri): accusati di aver contattato Vito Ciancimino come canale di mediazione.
  • Nicola Mancino, ex Ministro dell’Interno: accusato di falsa testimonianza.
  • Marcello Dell’Utri, tramite di collegamento tra mafia e politica.
  • Marcello Viola, Antonio Subranni, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà: a vario titolo coinvolti nel procedimento.

Nel processo di primo grado, nel 2018, il tribunale ha riconosciuto l’esistenza della trattativa e ha condannato diversi imputati, tra cui Mori e Dell’Utri. Il giudice Alfredo Montalto scrisse parole pesantissime:

«Funzionari dello Stato si piegarono al ricatto mafioso.»

Nel 2012, la vicenda ebbe un ulteriore scossone. Durante le indagini, vennero intercettate telefonate tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Nicola Mancino. L’intento non era penale, ma politico. Tuttavia, il Presidente chiese e ottenne dalla Corte Costituzionale la distruzione di quelle intercettazioni.

Una scelta che sollevò polemiche. Alcuni parlarono di protezione istituzionale. Altri di legittima difesa dei poteri costituzionali. Ma il punto è un altro: un’indagine cruciale veniva limitata ai piani alti dello Stato.

Per molti anni chi sollevava dubbi veniva tacciato di giustizialismo, cospirazionismo, mitomania. Pochi giornalisti scelsero di approfondire. I più rimasero sulla superficie, attendendo le sentenze, senza scavare nei meccanismi profondi della trattativa.

Solo dopo la condanna di primo grado, si cominciò a parlarne con più serietà. Ma anche allora, il dibattito fu depotenziato, presentato come “scontro tra magistratura e politica” invece che come crisi morale e costituzionale dello Stato italiano.

Nel 2023, la Corte d’Appello di Palermo ha assolto tutti gli imputati principali. Le motivazioni non hanno negato l’esistenza di contatti, ma hanno ritenuto che non vi fosse reato configurabile.

Ma anche questa sentenza, piuttosto che chiudere il caso, ha lasciato aperti tutti gli interrogativi storici e civili:

  • Perché lo Stato ha trattato?
  • Chi ha deciso di trattare?
  • A nome di chi?

Domande alle quali la magistratura può anche non rispondere in modo definitivo, ma a cui il giornalismo ha il dovere di non rinunciare.

La trattativa Stato-mafia non è solo una questione giudiziaria. È una questione morale. Una crepa profonda nella Repubblica.

Portella della Ginestra: la madre delle stragi e dell’omertà

Il 1° maggio 1947, migliaia di contadini e braccianti si radunarono a Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, per celebrare la festa dei lavoratori. Due settimane prima il Blocco del Popolo (comunisti e socialisti) aveva trionfato alle elezioni regionali. Ma quel giorno, una scarica di mitra colpì la folla: morirono 11 persone, tra cui bambini, e decine rimasero ferite.

La stampa – tranne rarissime eccezioni – riprese la versione ufficiale: l’attacco fu opera di Salvatore Giuliano, un bandito separatista. Un “fuorilegge solitario”. Una comoda semplificazione. La versione più conveniente per lo Stato.

In realtà, i mandanti veri furono altri: settori della mafia, latifondisti, esponenti della destra reazionaria che volevano fermare l’ascesa del movimento contadino e del fronte popolare. Giuliano fu trasformato in capro espiatorio. Il suo braccio destro Gaspare Pisciotta, che minacciava rivelazioni in aula (“se parlo viene giù l’Italia”), morì avvelenato in carcere con stricnina nel caffè. Caso archiviato.

Nessuno pagò per quei mandanti.

Falcone, Borsellino, Portella. Tre epoche diverse. Stessa strategia:

  • Isolamento preventivo
  • Manipolazione della verità
  • Santificazione postuma

La stampa, anziché interrogare il potere, ha spesso accettato la narrazione del potere. E questo, in una democrazia, è il primo tradimento.

Casi di depistaggio rilevanti

Il depistaggio in Italia è una tecnica sistematica. Serve a confondere, a scaricare le colpe, a proteggere apparati dello Stato deviati.

  • Piazza Fontana (1969): dopo la bomba alla Banca dell’Agricoltura a Milano (17 morti), si decise di scaricare la colpa sugli anarchici. La questura di Milano, i servizi segreti, uomini del Ministero dell’Interno e funzionari statali operarono un depistaggio scientifico. Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, fu trattenuto illegalmente, interrogato per giorni, “precipitò” da una finestra della questura. La versione ufficiale fu: suicidio per senso di colpa. Il presidente Sandro Pertini si rifiutò di stringere la mano al Questore di Milano. Un gesto simbolico, ma potente. Un gesto fuori dal protocollo, compiuto da Pertini e motivato — come dichiarò anni dopo in un’intervista a Oriana Fallaci nel 1973 — anche dal fatto che su Guida, all’epoca questore di Milano (già direttore del confino di Ventotene nel ventennio fascista), gravava l’ombra della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli.
  • Bologna (1980): 85 morti. Solo dopo anni si riconobbe la matrice neofascista. La verità emerse nonostante i depistaggi istituzionali.
  • Piazza della Loggia (1974): 8 morti. Indagini sabotate, testimoni intimiditi. La pista neofascista fu ignorata per anni.
  • Italicus (1974): 12 morti. Nessuna vera inchiesta. I legami con apparati deviati e strategia della tensione non furono mai approfonditi.

Una lunga strategia della tensione. Lo stesso fil rouge lega tutti questi fatti. I depistaggi non solo occultano la verità, ma creano una nuova verità falsa, che viene rilanciata dalla stampa.

Il Paese dei misteri e dei giornalisti assassinati

In Italia si può morire per una notizia. E chi scrive per raccontare ciò che non si dovrebbe sapere, spesso muore due volte: la prima per mano degli assassini, la seconda per il silenzio dei colleghi.

Ecco alcuni nomi che non possono essere dimenticati:

  • Mauro De Mauro (1970): cronista de L’Ora di Palermo, stava lavorando a un’inchiesta sulla morte sospetta di Enrico Mattei. Fu sequestrato sotto casa e non venne mai più ritrovato.
  • Giovanni Spampinato (1972): giornalista de L’Ora, ucciso a Ragusa per aver scritto su neofascismo, malaffare e omertà provinciale. Aveva toccato nervi scoperti, e fu isolato dai colleghi.
  • Carmine “Mino” Pecorelli (1979): direttore di OP – Osservatore Politico, era in possesso di documenti riservati sul caso Moro, sulla P2 e sui rapporti tra criminalità e istituzioni. Venne assassinato con un colpo alla nuca a Roma. Scriveva troppo, e sapeva troppo. La stampa lo definì ambiguo, più interessata alla sua “vicinanza al potere” che al contenuto delle sue inchieste.
  • Mario Francese (1979): cronista del Giornale di Sicilia, fu il primo a raccontare l’ascesa di Totò Riina e dei corleonesi. Venne isolato professionalmente, ignorato dalla sua stessa redazione. Lo uccisero davanti casa.
  • Peppino Impastato (1978): militante, giornalista, voce libera. Con la sua Radio Aut denunciava il boss Tano Badalamenti. Fu fatto esplodere sui binari. Presentato inizialmente come terrorista. Solo l’impegno della madre Felicia permise di smascherare la verità.
  • Giuseppe Fava (1984): fondatore de I Siciliani, attaccò frontalmente i Cavalieri del Lavoro catanesi, potentati economici legati alla mafia. Venne ucciso con un colpo alla nuca.
  • Giancarlo Siani (1985): giornalista precario, scriveva sul Mattino da Torre Annunziata. Raccontò le faide interne della Camorra e i rapporti con pezzi della politica locale. Fu ucciso a 26 anni.
  • Beppe Alfano (1993): ucciso a colpi di pistola a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Lavorava su inchieste delicate che toccavano massoneria, affari pubblici e criminalità.
  • Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (1994): stavano documentando traffici illeciti di rifiuti tossici e armi tra Italia e Somalia, con il possibile coinvolgimento di apparati statali. Furono assassinati a Mogadiscio in un agguato mai chiarito.

Scrivere in Italia è un atto civile. Ma può costare la vita.

E a volte non serve neanche scrivere.

Lea Garofalo non era una giornalista, ma aveva fatto quello che dovrebbe fare ogni cronista degno di questo nome.

Era una donna. Una madre. Una cittadina italiana. Non è uno slogan.
Oggi, mentre il Governo cancella la parola “mafie” dal vocabolario ufficiale, c’è chi continua a morire per averle denunciate.

Mentre si tolgono fondi, si smantellano strutture, si depotenziano le leggi antimafia, c’è chi, come Lea Garofalo, chiedeva solo di essere ascoltata. E fu lasciata sola. Cresciuta in una famiglia legata alla ‘ndrangheta, decise di spezzare quel vincolo. Scelse di collaborare con la giustizia, di denunciare il compagno Carlo Cosco, boss del clan attivo tra Petilia Policastro e Milano.

Per anni visse sotto protezione. Ma la protezione fu intermittente, burocratica. I funzionari del programma spesso la ritennero poco affidabile, “insofferente” alle regole. Lea era una donna che chiedeva dignità, una vita normale.

Nell’aprile del 2009 (un mese prima del tentato sequestro di via Sant’Antonio Abate a Campobasso, 5 maggio 2009 e sei mesi prima della sua morte violenta a Milano, il corpo verrà poi distrutto in provincia di Monza, precisamente a San Fruttuoso) scrisse una lettera a diverse redazioni dei principali quotidiani italiani, indirizzata anche al Quirinale (la risposta di Pasquale Cascella, responsabile comunicazione del Colle…). Chiedeva che qualcuno parlasse del suo caso, della sua solitudine, dell’indifferenza dello Stato. Era un grido di aiuto.

Nessun giornale pubblicò quella lettera. Nessun giornalista la cercò. Nessuna testata la considerò “notiziabile”. Venne pubblicata dopo, nel Paese del giorno dopo.

Il 24 novembre 2009, Lea fu attirata in trappola dal suo ex compagno, Carlo Cosco. Fu rapita, torturata per ore, assassinata e bruciata in un bidone per tre giorni, con la complicità di più persone.

È stata celebrata solo da morta.

Il silenzio su Pasolini, Manca, Pantani, Ilardo

Quattro storie, quattro nomi che raccontano altrettante verità negate. Vicende apparentemente diverse, ma unite da un tratto comune: lo Stato che tace, la stampa che semplifica, l’opinione pubblica che dimentica.

Pier Paolo Pasolini

Intellettuale, poeta, regista, giornalista. Non aveva padroni. Scriveva con una lucidità feroce. Smontava il Potere e i suoi miti. Denunciava l’omologazione culturale, la nuova forma di fascismo consumistico, l’ipocrisia delle élite.

Stava lavorando a Petrolio, romanzo-inchiesta sull’ENI, sulla morte di Mattei, sul potere energetico e politico in Italia. Alcuni appunti scomparvero. La notte tra l’1 e il 2 novembre 1975, Pasolini fu trovato massacrato all’Idroscalo di Ostia. Il diciassettenne Pino Pelosi confessò, poi ritrattò. Disse che non era solo. Parlò di un agguato.

La stampa liquidò la vicenda come “delitto a sfondo sessuale”. UN FROCIO E BASTA. Nessuna inchiesta sulle piste politiche. Nessuna attenzione su Petrolio. Nessun dubbio mediatico. Pasolini fu assassinato due volte: la prima all’Idroscalo, la seconda nel racconto pubblico.

Attilio Manca

Brillante urologo siciliano. Fu trovato morto nel 2004 nella sua abitazione, in circostanze mai chiarite. La versione ufficiale parlò di overdose di eroina. Ma Attilio non era un tossicodipendente. Il suo corpo presentava segni di violenza.

Diversi pentiti di mafia, tra cui Carmelo D’Amico, hanno sostenuto che Manca avrebbe operato Bernardo Provenzano in Francia. Avrebbe saputo troppo. Sarebbe diventato un testimone scomodo. La Procura archiviò in fretta. La stampa ha rilanciato, per anni, la tesi dell’overdose.

Luigi Ilardo

Boss della mafia catanese, diventato confidente dei Carabinieri. Grazie a lui, fu possibile localizzare Bernardo Provenzano. La cattura era imminente. Ma pochi giorni prima che potesse formalizzare la sua collaborazione con la magistratura, Ilardo fu freddato a colpi di pistola.

Chi aveva interesse a fermarlo? Perché non fu protetto? La risposta è nel silenzio.

La stampa non raccontò il suo ruolo. Ilardo aveva rischiato tutto per passare dalla parte dello Stato. Ma lo Stato lo ha lasciato morire. E i giornali hanno lasciato che venisse dimenticato.

Marco Pantani

Il Pirata, campione del ciclismo italiano. Il volto della sfida contro le regole del potere sportivo. Il bersaglio perfetto.

Nel 1999, mentre era in testa al Giro d’Italia, fu escluso per ematocrito troppo alto. Secondo vari pentiti di camorra, tra cui Antonio Giordano, quel test fu manipolato per fermarlo. Le scommesse clandestine rischiavano di saltare. E Pantani doveva essere bloccato.

Da lì iniziò la discesa. Venne distrutto dalla stampa, definito tossicodipendente, fragile, finito. Abbandonato da chi prima lo idolatrava. Morì nel 2004 in una stanza d’albergo a Rimini, in condizioni mai chiarite.

Le sentenze che proteggono il giornalismo vero

Esistono strumenti giuridici precisi che tutelano il diritto-dovere del giornalista di indagare, denunciare, e sfidare la narrazione ufficiale.

Il giornalismo non è propaganda. È una funzione democratica fondamentale. E a ricordarlo ci sono due sentenze cruciali della Corte di Cassazione che costituiscono la spina dorsale giuridica del giornalismo investigativo e critico in Italia.

Cassazione, sentenza n. 5259/1984 (la sentenza decalogo)

Ha stabilito tre criteri fondamentali:

  1. Verità oggettiva o verità putativa:
    Il giornalista deve riportare fatti veri, oppure deve credere in buona fede che lo siano, basandosi su fonti attendibili e verificate. La verità non è assoluta, ma deve essere onestamente cercata.
  2. Interesse pubblico alla conoscenza del fatto:
    Il tema trattato deve riguardare la collettività, i diritti, la democrazia, il buon funzionamento delle istituzioni. Non si protegge il gossip, ma l’informazione rilevante.
  3. Continenza espressiva:
    Il tono deve essere misurato, non diffamatorio, anche se critico. Si può essere duri nei contenuti, ma non offensivi gratuitamente.

Questa sentenza è stata utilizzata per tutelare giornalisti che hanno sfidato poteri forti, anche quando non avevano “prove definitive”, ma indizi solidi e motivi validi per sollevare dubbi.

Cassazione, sentenza n. 16236/2010

«Il giornalista non è obbligato a limitarsi al resoconto neutro dei fatti, ma può interpretare, ricostruire, collegare eventi, proporre letture critiche o alternative rispetto alle versioni ufficiali, a condizione che ciò avvenga con correttezza metodologica e su base documentale o indiziaria solida».

Il giornalismo non è stenografia. È analisi, intuizione, deduzione. È il diritto di dire: “Io so”, anche se non si hanno ancora le sentenze.

In un Paese come l’Italia, dove le verità scomode emergono sempre tardi, il giornalismo non può aspettare il timbro dell’ufficialità. Deve anticipare, allertare, rompere il silenzio.

La deontologia del giornalista non è un’opzione. È un dovere.

Non è un insieme di regole formali da studiare per l’esame dell’Ordine. È la colonna vertebrale del mestiere.

Principi cardine sanciti dal Testo Unico dei Doveri del Giornalista (approvato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti):

  • Verificare le fonti
    Prima di pubblicare una notizia, il giornalista ha l’obbligo di verificare la veridicità, la completezza, la rilevanza delle fonti. Non può scrivere “lo dicono in molti” o “si vocifera”. Ogni affermazione ha un peso, ogni fonte una responsabilità.
  • Distinguere i fatti dalle opinioni
    L’opinione è libera, ma deve essere separata dai fatti. Il lettore ha il diritto di sapere cosa è accaduto davvero e cosa pensa il giornalista. L’ambiguità è disonestà.
  • Proteggere le fonti riservate
    Se una fonte rischia la vita o la carriera per fornire un’informazione utile alla collettività, il giornalista ha il dovere assoluto di tutelarne l’identità, anche a costo di subire pressioni giudiziarie. È un patto sacro.
  • Difendere il diritto all’informazione dei cittadini
    Il giornalista non scrive per i poteri, ma per i cittadini. Ha il compito di raccontare ciò che altri vogliono nascondere, dare voce a chi non ce l’ha, spiegare ciò che viene distorto.
  • Resistere alle pressioni
    Economiche, politiche, editoriali. Il giornalista deontologicamente corretto non può farsi influenzare da chi comanda, da chi pubblica pubblicità, da chi minaccia una querela. La schiena dritta è parte integrante del mestiere.

Non è moralismo. È etica professionale.

Chi dimentica questi principi non è un giornalista, ma un impiegato della notizia.

Il vero giornalismo è quello che accetta di essere scomodo, che non cerca l’applauso, che non obbedisce alle mode. Che “sta dalla parte del lettore, non del potere”.

Il giornalismo ha ancora una missione.

Se la stampa tace, la verità muore.
Se la stampa omette, la giustizia fallisce.
Se la stampa è complice, la democrazia è una menzogna.

Il giornalismo vero non si inginocchia, non si vende, non si dimentica.
È fatto di scarpe consumate, di quaderni pieni, di mani sporche d’inchiostro, di notti insonni e verità che bruciano.

Scrivere è resistere. Informare è proteggere. Ricordare è giustizia.

E allora, oggi come ieri, scegliamo da che parte stare.
Non con chi comanda. Ma con chi denuncia.
Non con chi manipola. Ma con chi racconta.
Non con chi rimuove. Ma con chi pretende verità e memoria.

La memoria è un ingranaggio collettivo. E il giornalismo ne è la chiave di accensione.

Grazie.

A chi legge. A chi scrive. A chi non si arrende.

(Campobasso, 16 maggio 2025)

 

Le foto sono state scattate dall’addetto stampa dell’UNIMOL


Sconfiggere la Mafia: dalla memoria all’azione, il coraggio delle coscienze libere


Il servizio di TLT Molise



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