L’agenda rossa di Paolo Borsellino: il simbolo della verità sottratta
Il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino viene massacrato in un attentato mafioso insieme a cinque agenti della sua scorta. Pochi minuti dopo l’esplosione, tra i frammenti della strage di via D’Amelio, un oggetto scompare nel nulla: l’agenda rossa.
Non era un’agenda qualsiasi. Era il taccuino personale che il giudice portava sempre con sé, soprattutto dopo la morte di Giovanni Falcone. Vi annotava appunti riservati, pensieri, nomi. Forse, indizi. Sicuramente una verità scomoda.
Nessuno ha mai più rivisto quell’agenda. Solo testimonianze confuse e un video, quello che mostra un ufficiale dei ROS, Giovanni Arcangioli, allontanarsi con la borsa di Borsellino ancora intatta. Quando viene restituita, l’agenda non c’è più.
La magistratura archivia l’inchiesta senza colpevoli. Nessuna responsabilità, nessuna verità. Solo ipotesi.
Ma l’Agenda Rossa è servita e serve a ricattare qualcuno?
A distanza di oltre trent’anni, l’agenda rossa rappresenta una ferita mai rimarginata, non solo per la famiglia Borsellino, ma per un intero Paese. È il simbolo di una verità rubata, di un sistema che non ha voluto guardare fino in fondo alle sue zone d’ombra.
E mentre si commemorano le vittime, il vuoto lasciato da quell’agenda pesa come una sentenza mai pronunciata. Paolo Borsellino cercava la verità. Ma la verità, a volte, dà fastidio.
Attilio Manca: una morte scomoda, una verità mai accettata
Attilio Manca nasce a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, nel 1974. Giovane medico brillante, si specializza in urologia e diventa uno dei primi in Italia a operare con tecniche di chirurgia robotica. A 34 anni lavora a Viterbo, nell’ospedale Belcolle, dove si è fatto stimare da colleghi e pazienti per la sua competenza e dedizione.
L’11 febbraio 2004, viene trovato morto nel suo appartamento. La stanza è in ordine, la porta chiusa dall’interno, vicino al corpo siringhe e farmaci. L’autopsia parlerà di overdose da eroina e tranquillanti, una morte per uso volontario di stupefacenti. Ma da subito, qualcosa non convince.
Le anomalie della morte
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Attilio era mancino, ma le due iniezioni letali risultano fatte con la mano destra.
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Il suo corpo presentava ecchimosi al volto, mai spiegate.
- Il medico non aveva mai avuto problemi di tossicodipendenza né segni di fragilità psicologica.
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Nessuna impronta digitale sulle siringhe, nessuna ricostruzione completa delle ultime ore di vita.
Attilio Manca curò Provenzano
Secondo l’ipotesi sostenuta dalla famiglia Manca, contenuta anche nella Relazione di minoranza della Commissione parlamentare Antimafia, Attilio sarebbe stato scelto per operare in segreto Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra allora latitante. L’operazione si sarebbe svolta in una clinica di Marsiglia nel 2003.
La magistratura ha sempre archiviato il caso come morte per abuso volontario di droga. Le richieste di riapertura avanzate dai familiari sono state sistematicamente respinte.
I genitori Angela e Gino Manca, insieme al fratello Giancluca, da oltre 20 anni, denunciano pubblicamente il silenzio delle istituzioni, i depistaggi, e il desiderio di chiudere il caso in fretta. Hanno parlato in scuole, convegni, trasmissioni, libri. La loro voce è diventata una battaglia civile.
Angela Manca:
“Attilio non è morto per overdose, Attilio è stato ucciso. E lo Stato italiano ha scelto di non vedere.”
Oggi Attilio Manca è un simbolo della verità negata. Come l’agenda rossa, come tante storie archiviate troppo in fretta. La sua morte è uno spartiacque: ci ricorda che in Italia, sapere troppo può costare la vita, e che la ragione di Stato può diventare omertà di Stato.
CASO ATTILIO MANCA. La Relazione completa della commissione Antimafia: «Non si è suicidato»
Attilio non ha avuto giustizia. Ma la sua storia vive.
Ogni volta che viene raccontata, ogni volta che si chiede “perché”, si apre uno squarcio nella cortina del silenzio.
E forse, un giorno, proprio da quel varco, entrerà la verità.
Riccio: «L’ordine per ammazzare Ilardo è partito dallo Stato»
Luigi Ilardo: il testimone sacrificato tra Stato e mafia
C’era un uomo che a un certo punto ha deciso di parlare. Non di pentirsi ufficialmente, almeno non subito. Ma di raccontare, in silenzio, da dentro. Di passare informazioni, nomi, luoghi, movimenti. Quel mafioso si chiamava Luigi Ilardo.
Non era un uomo qualsiasi. Era inserito nei clan siciliani più potenti, in contatto diretto con Bernardo Provenzano, il capo dei capi. Ma aveva deciso di collaborare con i carabinieri. Di fare il doppio gioco, per far saltare il sistema dall’interno.
E ci riuscì. Fu grazie a lui che, nel 1995, si scoprì dove si nascondeva Provenzano. Un casolare a Mezzojuso, in provincia di Palermo. Bastava intervenire. Bastava un blitz. Ma l’ordine non arrivò mai.
Chi bloccò quell’operazione? Chi decise che non si doveva arrestare l’uomo più ricercato d’Italia? Nessuno lo ha mai spiegato davvero.
Era pronto a fare il grande passo: diventare un collaboratore di giustizia ufficiale. Lo uccideranno sotto casa, a Catania. Un’esecuzione perfetta, silenziosa. Fredda. Il modo in cui Cosa Nostra elimina chi sa troppo, o peggio: chi parla.
Chi lo ha tradito?
Chi aveva interesse a farlo tacere per sempre?
La sua morte non è solo un omicidio mafioso. È uno dei tanti buchi neri nei rapporti tra Stato e mafia, quelli dove non ci sono solo criminali con la coppola, ma colletti bianchi, istituzioni, silenzi troppo perfetti per essere casuali.
A raccontare oggi la sua storia c’è Luana Ilardo, sua figlia, che da anni chiede giustizia e verità.
La storia di Luigi Ilardo ci riguarda tutti. Ci ricorda che ci sono verità che fanno paura, e persone che pagano con la vita il coraggio di raccontarle. Perché la mafia si combatte anche con la memoria di chi ha provato a fermarla. E con la rabbia di sapere che, troppo spesso, lo Stato è arrivato tardi. O peggio: ha fatto finta di non vedere. O, semplicemente, è complice.
Ovviamente quello Stato deviato che da secoli è intrecciato con le mafie.