“Devo farle una domanda, e le chiedo una sola cosa: abbia il coraggio di porla pubblicamente, di gridarla in Aula, in Parlamento, sui media. La domanda è semplice, ma scomoda: perché un ex collaboratore di giustizia può tornare a vivere nella propria città, mentre un testimone onesto, incensurato, deve vivere esiliato a vita dalla propria terra?”
Questa lettera nasce da una profonda ferita, da un’ingiustizia che la Repubblica continua a perpetuare contro i suoi cittadini migliori. Parliamo di quella differenza abissale – che troppi fanno finta di dimenticare – tra il collaboratore di giustizia (l’ex criminale che decide di pentirsi per convenienza o per paura) e il testimone di giustizia (il cittadino onesto che sceglie, con coraggio e senso dello Stato, di denunciare).
Ebbene, oggi lo Stato protegge e riammette l’ex camorrista, lo fa reinserire nel contesto sociale, lo riporta persino nel quartiere dove spadroneggiava. Mentre il testimone onesto viene cancellato, allontanato, isolato.
Una punizione anziché una protezione.
Chiediamoci questo: perché la società civile non si indigna? Perché nessuno grida allo scandalo? Perché non si pretende il rispetto e il riconoscimento per chi ha avuto il coraggio di denunciare clan, estorsioni, corruzione, appalti truccati?
La risposta è drammatica: viviamo in una cultura che ha normalizzato la camorra, la criminalità organizzata, il compromesso sporco come regola di convivenza.
Si preferisce l’omertà all’onestà, il silenzio alla denuncia, l’obbedienza cieca al dissenso legale.
C’è una tattica studiata e praticata da anni: normalizzare la mentalità camorrista, farla apparire come folklore, parte del tessuto sociale, quasi una cultura parallela accettata. È la camorra che diventa protagonista su TikTok, nei videoclip, nelle fiction senza vergogna. Intanto, chi denuncia è solo.
Un cittadino onesto, se parla, viene sacrificato.
Oggi, un testimone di giustizia non ha solo il nemico fuori, ha anche lo Stato che lo tratta come un problema da spostare, contenere, dimenticare.
Caro Onorevole Francesco Emilio Borrelli,
lei che conosce bene la realtà napoletana, lei che ha subito aggressioni e minacce per il suo impegno contro l’illegalità, si faccia carico di questa voce.
Lo dica in Parlamento: perché uno che ha fatto parte della camorra può tornare nel suo quartiere, mentre un cittadino incensurato deve vivere in esilio?
Perché la legge premia il criminale redento e abbandona il giusto?
Perché lo Stato accoglie il collaboratore e dimentica il testimone?
Perché la cultura popolare celebra l’ex boss pentito e ignora chi ha rischiato la vita per denunciare senza chiedere nulla in cambio?
Mi chiamo Gennaro Ciliberto, sono un testimone di giustizia. Non ho chiesto vantaggi. Non ho avuto prebende, né trattamenti speciali.
Ho denunciato appalti pubblici truccati, mafia negli appalti, corrotti e corruttori.
Ho ricevuto minacce, ho perso il lavoro, sono stato costretto a lasciare la mia terra, mentre altri – ex criminali – vengono reintegrati, addirittura celebrati.
Non è vittimismo. È verità. Una verità scomoda, che in molti non vogliono raccontare.
O si cambia rotta, o si muore nella rassegnazione.
I testimoni di giustizia vanno protetti, sostenuti, ricordati.
Non trattati come schegge impazzite da mettere a tacere.
Deputato Borrelli, questa è una battaglia di civiltà. E se non la combatteremo, la mafia – la vera mafia, quella culturale, quella che silenzia la coscienza – avrà già vinto.