La nascita vera e propria della mafia si colloca, per comune consenso, verso la metà del secolo scorso e cioè in un tempo in pratica corrispondente alla formazione dell'Unità d'Italia. È solo in questo periodo, infatti, che cominciano a verificarsi e a ripetersi con frequenza le manifestazioni più caratteristiche del fenomeno (specie quelle di tipo delittuoso), e che si evidenzia, con sempre maggiore chiarezza, quella connotazione specifica della mafia, che è costituita dall'incessante ricerca di un collegamento con i pubblici poteri. Ciò non toglie, naturalmente, che la mafia abbia radici lontane e che di essa si trovino nel passato gli elementi sparsi e diversi, che hanno concorso a formarla, in una sintesi nuova, tale da proporsi come una realtà, che non è direttamente riconoscibile nei fattori sociali ed umani che ne sono stati alla base; ma appunto perciò è indispensabile, per individuare le origini profonde della mafia, scrutarne i segni premonitori nelle vicende della storia siciliana, precedente all'Unità d'Italia.
Come meglio si vedrà in seguito, la mafia non è una lega segreta e non è nemmeno una organizzazione in senso proprio, ma si qualifica piuttosto come un comportamento di un certo tipo, che, sia pure nel quadro di determinate costanti, ha avuto aspetti diversi nelle varie situazioni storiche. Di conseguenza, la storia della mafia si intreccia con le vicende del popolo siciliano, e in particolare della Sicilia occidentale, proprio in quanto sono queste vicende che hanno creato le premesse del fenomeno mafioso ed è nell'ambito più vasto della storia della Sicilia che i mafiosi hanno svolto un proprio ruolo, spesso significativo. Nessun popolo, si può dire, ha subito, come quello siciliano, vicende così travagliate, e nessun popolo ha vissuto esperienze altrettanto angosciose a contatto con civiltà diverse, tutte interessate a lasciare nel suolo occupato e negli abitanti dell'Isola l'impronta della propria presenza.
Giustamente si è detto che la storia della Sicilia è stata una storia di sbarchi, da quello dei fenici a quello degli anglo-americani nel 1943: e tutte le volte le popolazioni locali sono state costrette, nei modi più vari, e spesso anche con la ricerca di un compromesso, a difendersi dalle prepotenze e dalla volontà di conquista degli invasori. La molteplicità e la varietà di queste vicende, che dovettero rappresentare per le popolazioni siciliane un terribile trauma, non impediscono tuttavia di intravedere al fondo delle cose la pratica identità, nel corso dei secoli, di due fattori particolarmente rilevanti ai fini che qui interessano, e costituiti, l'uno dalla struttura (sostanzialmente) feudale che ebbe per un lungo periodo della sua storia la società isolana, l'altro dall'assenza (o dalla lontananza) di un potere centrale, che agglutinasse le forze economiche e sociali ed impedisse la formazione di ceti privilegiati rispetto alle masse popolari. Tutte le dominazioni, che si succedettero nell'Isola, non furono in grado di esercitare con incisività di proprio potere sulle popolazioni locali.
La Sicilia, infatti, non fu mai un territorio coloniale totalmente soggiogato e sfruttato, ma non fu neppure messa in condizione di avere un governo autonomo, mentre la distanza e i frequenti mutamenti del centro sovrano impedirono alle popolazioni indigene di identificarsi e di unirsi con i detentori del potere. La lontananza e la debolezza delle dinastie dominanti ebbero come naturale conseguenza la dilagante, sfrenata indipendenza delle potenze locali, interessate ad accrescere, con ogni forma di vessazioni e di angherie, la propria posizione di privilegio. Il fenomeno ebbe manifestazioni più accentuate a Palermo e nella Sicilia occidentale, perché a Messina la debolezza dei governi centrali fu messa a profitto dell'indipendenza comunale, della libertà di commercio, dell'autorità e del prestigio degli organi locali. Più specificamente, Messina e la Sicilia orientale cercarono di acquistare un'autonomia di governo, per la tutela dei commerci locali, e si sforzarono quindi di valorizzare gli organismi amministrativi locali, nel tentativo, non dissimile da quello compiuto da molte città dell'Italia settentrionale e centrale, di contrapporre un forte potere comunale a un potere statale in pratica inesistente.
A Palermo, invece, e in genere nella Sicilia occidentale, l'incapacità costituzionale dei governi centrali di far sentire la propria presenza nell'Isola favorì un rafforzamento, non degli organi ufficiali del potere, ma del potere privato dei singoli o di gruppi, che avevano tutti i caratteri di veri e propri «clan». Ne derivò una posizione di privilegio e di dominio per le potenze locali, e specialmente par i baroni. Costoro erano proprietari di fondi feudali e riuscirono per lunghi periodi ad esercitare di fatto un'influenza decisiva sullo sviluppo e sulle stesse condizioni di vita dei siciliani.
In effetti, la difficile situazione economica dell'Isola e in particolare l'espansione della popolazione rurale senza terra e la conseguente eccedenza della manodopera consentivano ai ricchi proprietari una politica vessatoria nei confronti dei contadini e degli stessi mezzadri. Tra l'altro, il signore poteva imporre ai contadini, non solo l'obbligo di coltivare la terra e la consegna dei prodotti, ma anche diverse e numerose prestazioni personali, a cui erano talora sottoposte — come documenta il «catalogo» compilato da Winspeare — non solo il coltivatore, ma anche sua moglie e i suoi figli. La precarietà delle condizioni di lavoro facevano insomma del proprietario il sovrano della vita del mezzadro o della vita del bracciante; ma ciononostante, a causa dello stato di insicurezza e delle continue violenze, che caratterizzavano nel medioevo la vita sociale, anche molti liberi proprietari, specialmente i più deboli, preferirono abbandonare la propria condizione per rifugiarsi nella servitù feudale, affidando al barone se stessi e la propria terra.
A questi aspetti peculiari della società feudale siciliana se ne andò aggiungendo, col tempo, un altro ancora più caratteristico, quello dell'assenteismo, sempre più accentuato, dei baroni, che preferivano vivere in città, piuttosto che rimanere in campagna e occuparsi in proprio della coltivazione della terra. Per concedersi il lusso di una vita comoda e spensierata a Palermo, i ricchi feudatari non esitavano ad affidare l'amministrazione e la coltivazione della terra a grandi locatari, che sarebbero diventati i gabellotti per antonomasia.
Quasi sempre i gabellotti pagavano il canone in denaro e in anticipo ed è proprio questa circostanza che finì per trasformarli in pratica nei veri proprietari della terra. Di fronte ai contadini, i gabellotti prendevano il posto dei feudatari ed erano legittimati ad esercitarne tutti i diritti, con la conseguenza che la loro posizione si rafforzava anche nei confronti dei proprietari. In questo modo, con l'esercizio di una funzione di mera intermediazione, i gabellotti si mettevano in condizione di realizzare consistenti profitti, da una parte sfruttando i contadini, dall'altra contestando, in forme crescenti, i diritti dei proprietari e venendo meno, con frequenza sempre maggiore, all'obbligo di pagare canoni corrispondenti alle rendite della terra.
Dal canto loro, i baroni si mostravano soddisfatti della propria posizione, interessati com'erano a sfruttarne i risvolti di prestigio formale e personale, piuttosto che a utilizzarla per finalità speculative. Inoltre, fin dai tempi più antichi, per proteggere se stessi e i propri beni contro le pretese dei contadini dipendenti presero l'abitudine di circondarsi di «bravi» armati, che venivano così a formare un vero esercito personale. Naturalmente, venivano reclutati come «bravi» individui coraggiosi e spregiudicati, che spesso avevano conti in sospeso con la giustizia, e che perciò si mettevano al servizio dei proprietari feudali, in cambio dell'impunità e della protezione che ne ricevevano. Nemmeno l'istituzione delle compagnie d'armi dissuase i proprietari dalla consuetudine di assoldare personale col compito specifico di sorvegliare i campi.
Col tempo, i guardiani presero il nome di campieri, ebbero come capi i «soprastanti» e furono organizzati in forme paramilitari; divennero così lo strumento dei soprusi e delle sopraffazioni dei proprietari sui contadini e sul ceto borghese.
Per evitare le loro vessazioni, i coltivatori presero l'abitudine di pagare ai campieri veri e propri tributi, anche in natura, e di riconoscere a loro favore diritti di vario genere (il «diritto di cuccia», il «diritto del maccherone», non diversi, nella sostanza, di quello che sarebbe stato il «pizzu» nella subcultura mafiosa. Questa situazione si perpetuò nei secoli e alla vigilia della rivoluzione liberale le strutture feudali della proprietà fondiaria costituivano ancora la base sociale ed economica della potenza dei baroni. D'altra parte, l'assenza di un potere centrale efficiente, favoriva i peggiori arbitri del ceto dominante, consentendo tra l'altro ai padroni di esercitare la giustizia punitiva e di lasciare ai loro «bravi» o campieri il diritto di spadroneggiare nelle campagne al riparo di un'impunità praticamente assoluta, quindi legittimando l'esercizio di un potere vessatorio specie nei confronti dei coltivatori della terra, mezzadri e braccianti.
Nel 1812, sotto l'influsso delle forze d'occupazione inglesi, fu abolito il feudalismo e la Costituzione di quell'anno decretò l'abolizione di «tutte le giurisdizioni baronali» e delle «angherie e parangherie introdotte soltanto dalla prerogativa signorile». Si consentì inoltre la vendita dei fondi feudali, ma la disposizione ebbe soltanto l'effetto di favorire il passaggio della terra dalle mani degli aristocratici in quelle dei gabellotti, e cioè del nuovo ceto intermedio che si era venuto creando nel corso degli anni; non determinò invece la fine del latifondo, e di conseguenza non riuscì a modificare nella sostanza i rapporti esistenti tra i proprietari, coloro che coltivavano e quelli che sorvegliavano. Il successo della rivoluzione liberale e la realizzazione dell'Unità d'Italia indubbiamente completarono la progressiva riforma delle strutture giuridiche dello Stato autoritario, ma nella Sicilia occidentale e, in misura meno accentuata e meno duratura, anche in alcune zone della Sicilia orientale, lo Stato non riuscì a farsi accettare dalla morale popolare. I provvedimenti adottati dai governi che si succedettero alla guida del Paese subito dopo l'Unità non furono tali da guadagnare al potere centrale la lealtà delle popolazioni locali.
La prima leva militare suscitò, secondo tutte le testimonianze, gravi preoccupazioni tra i giovani e nelle loro famiglie, tanto che molti richiamati preferirono darsi alla macchia e unirsi ai banditi piuttosto che fare il soldato al nord; inoltre, il sistema tributario, colpendo anche i redditi di lavoro, apparve a molti, e specie al ceto medio, più svantaggioso di quello borbonico, essenzialmente fondato sulla tassazione della rendita fondiaria.
Ma la delusione più cocente fu certo rappresentata dalla mancata lottizzazione del latifondo e dalla mancata distribuzione ai contadini di una parte almeno delle terre. Lo Stato liberale infatti non riuscì a risolvere il problema della riforma agraria e non fu neppure in grado di porre su nuove basi il rapporto con i cittadini siciliani, in modo da dare spazio alle loro legittime aspirazioni all'autogoverno.
In questo settore si può dire che la situazione si aggravò rispetto li passato, in quanto il nuovo regime provocò una scissione tra le norme dell'ordinamento statale e quelle effettivamente vigenti (anche se entro limiti circoscritti) tra le popolazioni della Sicilia occidentale.
Prima della rivoluzione liberale, le prerogative dei baroni e in genere dei proprietari terrieri avevano nel sistema una legittimazione giuridica, anche nel senso che era connaturato all'organizzazione dello Stato l'esercizio della forza da parte dei ceti dominanti sulle popolazioni contadine. Lo Stato liberale invece rifiutò l'ipotesi di un potere sovrano che si sostituisse al suo e che ne esercitasse legittimamente gli attributi nei confronti dei consociati; ma la sua struttura organizzativa non riuscì ad imporsi — con la forza e l'incisività necessarie — in tutto il territorio della Sicilia; così come non riuscì a farsi strada nella coscienza popolare di quelle zone la convinzione che non può esserci giustizia al di fuori di quella statale e che gli organi dello Stato sono i soli legittimati ad assicurare a tutti e ad ogni cittadino un'efficace protezione (giuridica e di fatto) contro le prepotenze e le sopraffazioni altrui.
Le popolazioni siciliane, specialmente quelle delle zone occidentali, non accettarono (in tutta la sua latitudine) la preminenza dell'ordinamento formale dello Stato, ma si mostrarono propense a preferirgli le norme vigenti nell'ambito di determinati rapporti di gruppo con la famiglia, gli amici, i clienti. Di conseguenza, i fenomeni di affermazione di un potere privato, che avevano contrassegnato la società feudale siciliana, si trasformarono nel dato più significativo di una subcultura che si oppone alla pretesa statale di conformare alle proprie norme l'azione di tutti. È in questo contesto che nasce la mafia, intesa appunto come l'espressione di un potere (economico e politico), che cerca di affermarsi nelle condizioni effettive della società siciliana, non solo inserendosi nei vuoti dell'organizzazione statale, ma anche attraverso la ricerca di un collegamento con i poteri pubblici.
1 parte/continua
Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976
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