Ci sono terre che potremmo definire di “transito” per quella loro innata attitudine alla precarietà, ovvero a quell’atavico senso di “perplessità umorale” che pare pregiudicare la nascita e l’edificazione di una pertinente identità storica, culturale, artistica. Come se una sorta di ferrea ostilità alimentasse – anziché demolire - forme di contenimento e di limitazione. La nostra è una terra di transito, con tutto quel che ne conviene.
Ma in tale contesto ogni eventuale – finanche fortuita – conoscenza sembra raccogliere attorno a sé una “intonazione” mai omologata o rassicurante. L’incontro raro – l’evento – muta, seppure per poco, l’umore pregnante di un secolare provincialismo e pone, assai spesso, radici preziose e durevoli. Ciò mi è accaduto negli anni, con incontri straordinari disseminati per temporalità occasionali. Nel “mutismo” di una terra confinata Pietro Annigoni mi ha narrato la sua storia di uomo rinascimentale; col segno elegante della mano – e l’occhio luminoso – Umberto Mastroianni mi ha descritto l’equilibrio inverosimile posato tra il suono e la materia. Poi, assai più recentemente, Eugenio Carmi mi ha offerto la confidenza che nasce, forse, da un sentire comune, seppur distante per luoghi e tempi. L’ho incontrato ad Arpino in primavera inoltrata, quando i cespi delle ginestre neonate fanno da portale ad ogni metro di terriccio brunito fino a confondersi col verde e l’ocre delle colline grasse. Lo stesso Carmi ne avrà “subito” il profumo pungente scivolando per le curve generose che celano casolari severi e aie soleggiate. Lui che subisce la nebbia dei “navigli” e la invita talvolta a soggiacere – sulla tela – ai “cicli” del rosso e del blu. Lo avrà stupito, ne sono certo, quel cielo terso privo di uno straccio di nuvola che faciliti l’orientamento, o che suggerisca i presunti cardinali. Lo avranno sorpreso quei tornanti spigolosi che s’abbandonano alla fuga, assai simili a quelli che ne hanno nutrito lo sguardo negli anni innocenti trascorsi a Genova.
E mi ricorda, quel volto affabile e benevolo sorretto da occhi rassicuranti che delimitano un naso pacatamente pronunciato, “quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così” di continua memoria. Cordialità bonaria di un Maestro – come fu quella di Annigoni o di Mastroianni – che rifugge da cerimoniosi omaggi.
Nel “salotto buono” di Arpino, dove Cicerone e Caio Mario sembrano gli alfieri opposti di una smisurata scacchiera e i fantasmi pigri di Mastroianni e Troisi dialogano all’ombra del Tulliano, Eugenio Carmi si fa narratore magnanimo e disincantato. È una sorta di viaggio animoso che percorre i confini di un secolo, con le albe accecanti colme della conoscenza spaurita e i tramonti carichi del dubbio e delle mille cose ignorate.
Il prologo sa di consigli pacati, di curiosità giovanili, di precetti mai violati.
Felice Casorati – ovvero l’archetipo della figurazione novecentesca – è il suo maestro. Le geometrie severe del “grande vecchio”, le visioni plastiche, la smisurata ricerca cromatica, sembrano segnare il destino del “pittor giovane”. Chi osserva oggi le opere di Carmi – col prezioso rigore delle forme e delle equivalenze tonali – deve necessariamente rapportarsi a quella severità originaria, a quell’insegnamento di ineluttabile – e proficua – tensione.
Il realismo “fondamentalista” delle tele giovanili – con una metodica consegna delle valenze dialogali – sembra preservare, per intero, un impianto narrativo assai caro alla tradizione pittorica novecentesca. Di un Novecento tutto italiano in cui la “trasgressione” è un misurarsi metodico con il “male di vivere”, con le notturne dissolvenze, col quotidiano dimesso e mimetico. Così la postura di volti assenti che ripudiano quasi le dinamiche della sorpresa o dell’incanto. O “interni” sopraffatti dall’umore delle ore piccole in cui l’interspazio tra l’inopinabilità del tempo trascorso e le ansie del divenire colma la tela in ogni sua misura. Non dimentichiamo quella stagione fatta di dolorose assenze, di un “ordine” irrazionale, di aspirazioni negate.
Ma la pittura è assai spesso un susseguirsi – per sopraffazioni o sfinimenti – di stazioni narrative, di soste esaurienti, di accelerazioni improvvise, di indagini minuziose. Dopo quell’ampia parentesi di “realismo poetico” che ha sostenuto l’impianto pittorico di Carmi fino alla fine degli anni ’40, l’autore “comincia a spostarsi” per dirla con le parole di Floriano de Santi «verso articolazioni di luce o colore che esistono al di fuori dello spettro fenomenico. E dietro queste articolazioni sta l’impellente aspirazione di comprendere il rapporto tra il colore (incorporeità) e il tatto (l’essere fisico), tra gli spazi illimitati percepiti dall’occhio della mente e la sfera limitata dell’esistenza corporea».
Non è, quella di Carmi, una forma di rinuncia a scenari di “empirica” rappresentazione, bensì la necessità di “dire” con un sillabario inedito e liberatorio in cui le modulazioni della “poesia pura” sembrano impadronirsi delle perimetralità della superficie. Dallo “strappo” prodotto alla fine degli anni ’50 – di chiara matrice “informale” – la vicenda artistica del nostro autore pare confrontarsi col tentativo di “ricomporre” - di ricostruire quasi – i brandelli fino allora dissolti, afferrati, scompigliati, immaginati finanche.
Nel 1963, “Appunti”, un olio e collage di notevoli dimensioni, sembra anticipare quello che sarà, nel tempo successivo, il “modello di scrittura” di Carmi pittore: come continenti millenari – colmi di tracce e profili remoti – due estesi quadrilateri posti al centro dell’opera tentano una sorta di “riavvicinamento” fisico che prefigura oltremodo una “riconciliazione” cromatica che, negli anni a venire, sarà “l’anima” del segno rappresentato.
Il nuovo “strumento” è una straordinaria osservazione poetica capace di attribuire al vissuto – ai modelli consuetudinari dell’incedere – un’inedita definizione visiva. Le forme elementari della geometria – il cerchio, la retta, il quadrilatero – si fanno segnali insostituibili di un repertorio severo ma onirico al contempo. Il “luogo”, quello intimo e quello codificato, è definito per azioni essenziali dove le sagome tonali rimandano ad una dimensione incantata, immaginifica, magica. Le grandi “geometrie” degli anni ’80-90, fino al ciclo recente di “Libertà dell’interpretazione” ci consegnano un artista capace di sorprendersi ancora e di riferire la sua quotidiana meraviglia col segno alchemico dell’origine. Un codice apparentemente inerme ma che penetra e ridefinisce – arricchendoli – i nostri parametri di lettura.
Lui, il “fabbricatore di immagini” come ama definirsi, procede con assoluto rigore ricomponendo sulla campitura gli “spazi illimitati percepiti dall’occhio della mente” per restituire a noi l’opportunità del sogno.
Eugenio Carmi (Genova, 17 febbraio 1920 – Lugano, 16 febbraio 2016) fin dall’inizio degli anni cinquanta è tra i maggiori esponenti dell’astrattismo italiano. Nei primi due decenni con la pittura informale e dalla fine degli anni sessanta nel rigore delle forme geometriche, che svilupperà progressivamente nel corso dei decenni successivi. La maggior parte delle sue opere è su tela, ma importanti nel suo percorso artistico sono le carte, i lavori in ferro, le latte, i multipli e le sculture. Ha realizzato due opere cinetiche con una delle quali, la SPCE, è stato invitato alla XXXIII Biennale di Venezia del 1966. Dal 1958 al 1965, è responsabile dell’immagine dell'industria siderurgica Italsider e nel 1963 fonda la Galleria del Deposito. Membro dell’Alliance Graphique International, è considerato ancora oggi come uno degli innovatori del linguaggio grafico degli anni cinquanta e sessanta. Nel corso dei decenni la costante quotidiana della pittura nel suo studio non è mai solo un fatto puramente personale. Sempre in collegamento col mondo e con gli altri – collaboratori o altri artisti e intellettuali internazionali – ha spesso un ruolo trainante e di catalizzazione di talenti. E sul mondo Eugenio Carmi non manca mai di intervenire. Prima di tutto con la sua arte, ma anche con la parola, la presenza attiva in convegni e conferenze internazionali e attraverso l’insegnamento. Dall’amicizia e collaborazione con Umberto Eco nascono tre favole per bambini – tradotte poi in tutto il mondo – e Stripsody, opera che deve la sua unicità alla profonda sintonia artistica e umana tra lui, Eco e Cathy Berberian. Nei decenni ha esposto le sue opere in numerosissime personali in Italia e all’estero. Suoi lavori fanno parte delle collezioni di musei e istituzioni in Italia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Stati Uniti.
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2020-03-31 10:19:45
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