Ricordo il giorno in cui sono caduto, era caldo, spesso dovevo asciugarmi la fronte, ma ero felice. Giocavo a fare l’uomo con i miei compagni più grandi e, nel frattempo, non sapevo cosa di lì a poco mi sarebbe successo.
Eravamo tutti insieme a giocare a pallone “Passa… tira… daiiii… goooollll” si sentiva urlare fino a casa dei miei nonni tanto eravamo spensierati. Casa dei miei nonni era al centro di un agglomerato di case, entrando nel cancello ti accoglieva di sicuro Lilla, la mia cagnolina, con la coda scodinzolante, poi, entrando in casa, potevi annusare il profumo di cucinato. Ah, le polpette di sugo. Senza farmi vedere andavo e ci piazzavo una bella fetta di pane nel sugo, nessuno mi diceva nulla, non mi facevo scoprire, anche se, sotto sotto, so che tutti lo sapevano. Era grande la casa, due piani, stanze enormi, che da piccolo sembravano ancora più grandi… io, però, amavo il giardino perché c’era sempre qualche fiore che mio padre faceva crescere, poi le fragole, le mele, i fichi. Era curato, colorato.
Da piccolo non ero mai solo, anche se i miei erano sempre fuori per lavoro, ed i miei nonni in giro a fare le faccende di casa e terra, io giocavo con i miei inseparabili amici. Erano molto più grandi di me, oggi questa differenza di età si nota meno, ma allora 4, 5 o 6 anni erano davvero tanti, ma loro non me lo facevano notare, loro giocavano con me anche se ero piccolo. Ecco, questi si che erano amici!
Quel giorno, dicevamo, era caldo. Prendemmo la bicicletta e seguimmo una persona che sarebbe andata a fare motocross. Ci intrigava il fatto di vederlo fare evoluzioni, di vederlo saltare sulle dune del terreno e, così, lo seguimmo. Cercavamo di stargli a distanza prima di tutto per paura, e poi perché non sapevamo se potesse essere pericoloso… per noi!
Durò poco, oppure no, durò il tempo necessario, ma forse il mio ricordo mi fa pensare che era durato poco, non ricordo bene. Quello che ricordo erano le risate, lo stupore, la voglia di copiare quelle peripezie… ma eravamo piccoli, non potevamo farle.
Finito il gioco, tornammo con la bicicletta verso casa. Guidavo io, ero fiero di portare un compagno più grande dietro di me. “Sei sicuro, io so pesante!?” mi diceva, ma io ero pieno di energia, avevo visto acrobazie, vuoi che non ce lìavrei fatta a portarlo a casa e, per giunta, in discesa?!
Un gioco da ragazzi, pensavo! Soprattutto perché la sera dovevamo andare alla festa, dovevo vedere i miei coetanei, dovevamo andare a sentire il cantante, farci una passeggiata per la piazza, prendere un gelato. Mamma che serata, mamma che giornata bella era quella.
Inizia a pedalare per dare uno slancio alla bici poi, dopo qualche metro, iniziò a camminare da sola. Camminava e noi risate, camminava più veloce e noi ancora più risate… poi… destra… sinistra… destra… non reggevo più il manubrio, era troppo pesante, andava dove voleva lui e non dove volessi io… o mamma e adesso?! Boom…
Il tempo di guardarci in faccia e scoppiammo a ridere!!! “Mamma che botta!” e ridevamo ridevamo… di colpo la risate divenne un urlo di terrore, potevo leggerlo nel volto del mio amico che stava guardando il mio piede… era lì, esanime… il cervello mandavo lo stimolo, ma lui non rispondeva. Che stava succedendo? Com’era possibile. Panico.
Non era abituato a certe cose, qualche sbucciatura, qualche livido, qualche occhio gonfio, ma la sensazione del piede rotto era nuova. Non sapevamo che fare, non faceva male, ma era lì, diverso dall’altro, diverso dal solito…
D’un tratto non vedevo più per le lacrime che uscivano dagli occhi. Da lontano vedevo mia madre e mio padre che arrivavano a piedi, era una salita non da poco, ma loro correvano. Qualcuno li aveva avvertiti che mi era successo qualcosa. Non ricordo molto di quando arrivarono, non ricordo che facemmo, se ci abbracciammo, se mi diedero un bacio, una carezza… ci provo a ricordare, ma nulla, tabula rasa.
La corsa in ospedale fu rocambolesca. Cercammo in tutti i modi di non muovere il piede, non sapevamo se potesse essere un bene o un male farlo, allora, nel dubbio, lo tenevamo ben fermo.
Era il 24 agosto del 1984, circa le 18:00, quando un medico mi disse “Ora devi fare l’uomo, devi resistere, ti dobbiamo rimettere a posto la gamba”. Non capivo, non capivo cosa mi avrebbero fatto da lì a qualche secondo, sapevo solo che dovevo resistere, che dovevo…
Ecco, non mi diedero il tempo di pensare, di realizzare: uno tirava il piede verso di sé e l’altro la gamba dal lato opposto ed io… urlavo, ma da uomo!
Non so che significhi urlare da uomo, ma così mi dissero dopo quei minuti interminabili, che ero stato bravo e che sarebbe andato tutto bene.
Quella fu la prima esperienza in ospedale…
Ci rimasi qualche giorno, poi tornai a casa. Rimasi a letto per oltre 5 mesi, non potevo uscire di casa, non potevo alzarmi dal letto, non potevo fare assolutamente nulla se non restare immobile, guardare la tv, giocare con qualche amico che veniva a trovarmi a casa, grattarmi da sopra al gesso immaginando di riuscire ad arrivare fin sulla pelle e alleviare il prurito e… passare il tempo.
Wau… passare il tempo…
Il tempo non passava mai, ero sempre nervoso, ero sempre agitato, fino a quando non venne mio padre e mi disse “Ma per curiosità. Te lo sei cercato tu, oppure lo abbiamo fatto noi?”
In quel momento tornò l’uomo dell’ospedale che era in me. Iniziai a realizzare che (forse) se non avessi fatto “io” delle scelte scellerate quell’estate tendente all’inverno, non l’avrei passata in… quarantena forzata.
Tutto ciò che facciamo dipende da noi, dalle nostre scelte, dal nostro modo di porci alla vita e alle cose.
Se pensiamo che una cosa ci dia fastidio, anche se è la cosa più bella del mondo per gli altri, a noi darà sempre fastidio… se ci dicono di “non fare una cosa”, in noi scatta qualcosa che, invece, ci spinge a farla… l’indole dell’uomo ha i suoi perché, hai i suoi punti alti e punti bassi, ha le sue statistiche, le sue curve ascendenti e discendenti…
Col senno di poi, onestamente, non avrei portato la bici, col senno di poi non avrei trattato male i miei quando ero a letto e non potevo muovermi, col senno di poi… quante cose non avrei minimamente pensato di fare. Eppure la vita si vive in diretta, non è come una soap o un film in cui gli attori possono provare e riprovare la scena fino a quando non esce perfetta. La vita deve essere perfetta la prima volta, non si può rimediare, non si può tornare indietro sempre. A volte sì, per fortuna, si può chiedere “scusa”, si può “ammettere di aver sbagliato e rimediare”… altre volte questo resta impossibile e, a rimetterci, siamo un po’ noi e un po’ le persone che ci stanno intorno.
Quando si fanno delle scelte, non si fanno solo per la nostra vita, ma, inevitabilmente, le nostre scelte (così come quelle degli altri) si ripercuoteranno sulle vite di altre persone, sempre, sempre, sempre… come una ruota che gira.
Ecco perché, in questo momento, dobbiamo essere “egoisti”, si egoisti! Dobbiamo pensare a noi stessi, alle persone a noi care e non dobbiamo farci trovare impreparati quando lo sconforto ci assale: prima o poi “quasi” tutto passa! Cerchiamo di essere egoisti per qualche mese, isoliamoci dal resto del mondo, facciamo finta che esistiamo solo noi e… noi!
Un film diceva “io ballo da sola!”. Ecco, questo è il momento di pensare al nostro io, di pensare che possiamo uscirne più forti, che possiamo crearci quella corazza indistruttibile che hanno te tartarughe. Fateci caso, quando hanno paura cosa fanno? Si rintanano in “casa” e non escono fino a quando non avvertono che il pericolo è passato.
Facciamo come le tartarughe, restiamo a casa.
Antonio Sinibaldi, Bojano, Molise, Italia
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2020-04-06 16:31:30
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