«L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti» e «alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?» scriveva su La Città Futura l’11 febbraio 1917 Antonio Gramsci.
In una lettera al fratello Carlo il 12 settembre di dieci anni dopo, già in carcere, andò forse oltre scrivendo di essersi convinto che «anche quando tutto è o pare perduto bisogna rimettersi tranquillamente all’opera ricominciando dall’inizio». Parole di un’attualità stringente davanti alla pandemia che ha ingabbiato quasi tutto il Pianeta, uccidendo migliaia di persone ad ogni latitudine, facendo vacillare ogni sicurezza di chiunque. E, come in ogni periodo storico così buio, emergono le contraddizioni, gli sfruttamenti, il marcio. Tra le pieghe della cronaca e delle discussioni politiche e sociali sta emergendo la migliore solidarietà ma anche personaggi interessati solo all’orticello e agli interessi personali, che cercano di lucrare anche sulle disgrazie altrui e di sfruttarli. Tutto appare perduto, forse almeno in parte lo è, e come sperare?
Incarcerato dal regime fascista, pochi anni prima di morire, l’intellettuale sardo scriveva che bisogna rimettersi all’opera, denunciare, documentare e impegnarsi in prima persona. Senza piagnucolare, senza vigliaccheria e abulia ma facendo il proprio dovere. Quello che hanno fatto coloro che hanno dato la vita denunciando i potentati, le ingiustizie, le oppressioni criminali, il marcio che si insinua nelle nostre società e le corrompe. Le cronache di queste settimane ci raccontano di sfruttamento, di persone costrette a lavorare e ricattati nonostante norme, sicurezza e salute vengono nei fatti calpestati. Vicende spesso denunciate e documentate perché c’è chi fa il proprio dovere, chi non s’arrende e s’impegna. Ma cosa succede lì dove non c’è un sindacato libero, dove non puoi parlare ma solo chinare la testa? Troppi rimangono schiacciati, tanti si amalgamano, altri si arrendono. C’è stata una persona, straordinaria e infaticabile, che qualche decennio fa si pose la domanda e trovo la risposta forse più semplice, persino banale: se non c’è la voce la costruisco.
Era Domenico Toscano, un abruzzese che giovane si trasferì a Milano dove per decenni fu instancabile militante sindacale, protagonista del biennio rosso 1968-1969. Tra gli edili non c’era ancora nessuna presenza sindacale, i lavoratori erano abbandonati alle peggiori condizioni e sfruttamento, e lui impegnò tutto se stesso per costruirlo. Un impegno di solidarietà e per la giustizia, libero e umano. Senza steccati ed egoismi, senza interessarsi solo al proprio tornaconto o recinto. Perché a partire da quegli anni e per tutta la vita Domenico Toscano intrecciò l’impegno sindacale alla solidarietà internazionalista, ad una viva memoria partigiana e una militanza politica quotidiana. Non c’era un circolo, lui lo fondava, non c’era attivismo, lui lo iniziava.
Dopo alcuni decenni nel 1994 era tornato a Fossacesia, in provincia di Chieti, e in pochissimo tempo fu tra i fondatori dell’Anpi, del locale circolo di Rifondazione e avviò campagne e attività di solidarietà con la sua amata Cuba. Perché negli anni milanesi Domenico superò le barriere territoriali, gettò il cuore persino oltre oceano.
A Cuba fu ospite personale a casa di Fidel Castro, amico stretto di Gino Doné (l’unico italiano che partecipò allo sbarco del Granma) e di partigiani come Giovanni Pesce e Valentino Zuffada, con cui andò nel 1973 a sostenere la lotta contro il regime fascista dei colonnelli. Perché quando hai passione, quando il tuo cuore e la tua mente sono infaticabili cerchi sempre nuove cause, nuovi impegni. E senti sulla tua pelle l’ingiustizia, l’oppressione, la disumanità contro chiunque e ovunque. Eppure col passare degli anni la fatica non l’ha mai fermato, non ha mai sentito il peso degli anni che passavano. Anche quando ormai Domenico Toscano era arrivato alla soglia degli 80 anni quando in Abruzzo vedevi una bandiera cubana, c’era un volantinaggio da fare e occorreva la forza e la determinazione per portare avanti ideali e impegno politico lui c’era. Tante volte era intervenuto, anche a tarda sera e quando persone di ogni età (ma sicuramente più giovani di lui) sentivano solo la stanchezza e la voglia di tornare a casa lui si alzava, prendeva il microfono e ribadiva con poche parole che dopo aver dedicato tutta la sua vita alla militanza, alla lotta sindacale e politica, a tenere viva la memoria partigiana e alla solidarietà non si voleva arrendere. Ma, scandiva con voce forte e ferma, «io sono solo uno e c’è bisogno di tutti».
Parole forti che commuovevano ed entravano nel profondo, poteva ergersi a maestro, guardare gli altri dall’alto in basso, sbandierare la sua storia e invece si apriva al dialogo, all’ascolto, con rispetto e umiltà. Instancabilmente, perché anche quando tutto sembra perduto, quando nulla senza avere senso e raggiungere risultati ci si deve rimettere tranquillamente all’opera. Se nessuno ha parlato bisogna parlare, se nessuno ha agito prima bisogna agire. E così si può arrivare a partire da un comune della provincia di Chieti per arrivare a costruire la storia del sindacato nel cuore dell’Italia industriale e vivere la storia di altri popoli.
Domenico Toscano è venuto a mancare a 82 anni il 6 aprile 2013, dopo la scomparsa di Domenico Toscano in Abruzzo l’Associazione di amicizia Italia-Cuba non è stata più attiva fino all'anno scorso quando nel suo ricordo il 18 ottobre scorso a Pescara è stato fondato un nuovo circolo.
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2020-04-06 12:06:49
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