L’Italia si prepara alla ripartenza: l’incubo potrebbe essere passato, anche se il Paese deve prepararsi a future possibili «seconde ondate». In queste ultime settimane l’abbiamo sentito e letto tantissime volte, l’emergenza sanitaria appare alle spalle e tantissimi smaniano dalla voglia di «tornare alla normalità». L’arrivo del covid19 in Italia, i primi giorni di emergenza, le settimane più buie: potrebbe esserci la tendenza a cancellare tutto ciò dalla memoria, a rimuovere perché sono stati momenti troppo drammatici e duri. E quanto accaduto tra febbraio e marzo, coì come i momenti più acuti raccontano tanto della società italiana e delle sue dinamiche: un paese dove, come abbiamo cercato di documentare e raccontare in tanti articoli, servizi pubblici essenziali come la sanità sono stati devastati da scellerate privatizzazioni, clientelismi e squallide consorterie, dove il profitto privato domina sul rispetto dei diritti dei lavoratori.
E tante, troppe persone vengono lasciate ai margini e abbandonate. Si smania dalla voglia di tornare alla normalità ma, come qualcuno sostiene, probabilmente è la «normalità» il vero problema. Statistiche di associazioni come Save The Children e Oxfam, così come la quotidianità raccontata e documentata da tante associazioni solidali, restituiscono il quadro di un Paese dove l’impoverimento avanza e a molte persone sono negati persino i diritti fondamentali e la stessa possibilità di vivere.
Dopo l’avvio dell’emergenza tutto è stato riassunto con alcuni slogan, tra cui i più gettonati erano #restiamoacasa e #distantimauniti: sembravano quasi formule magiche, taumaturgiche facili e comode da realizzare. Col passare dei giorni invece è arrivata la realtà vera e cioè che molti non possono né l’uno né l’altro: si è arrivati addirittura ad assistere impotenti alla vergogna delle multe contro i senzatetto che non avevano luoghi dove ripararsi durante la notte. I più poveri tra i poveri e i più fragili ed emarginati sono apparsi invisibili, non considerati. Ma non per tutti: in tante città di ogni regione volontari, operatori, associazioni e cittadini hanno cercato di mobilitarsi per continuare ad essere vicini e solidali con chi vive ai margini e non ha una casa.
L’Associazione Papa Giovanni XXIII, ad esempio, è stata fondata da don Oreste Benzi nel 1987 e ha aperto a Rimini la prima «Capanna di Betlemme», un luogo dove gli «invisibili» della società possono trovare non solo una casa e un letto dove dormire ma «soprattutto il calore di una famiglia attraverso momenti importanti di condivisione come la cena e il dialogo che lentamente permettono di instaurare relazioni significative». Una capanna è presente da diversi anni anche a Chieti e opera anche a Pescara, coordinata da Luca Fortunato. Le tantissime attività della Capanna si possono seguire anche dalla pagina facebook e da quella personale di Luca, dove ogni giorno è possibile conoscere le persone che frequentano la grande famiglia, le loro storie e le loro vite. Luca Fortunato condivide la sua grande generosità e il cuore grande di tutta la Capanna, vite commoventi, profonde, che fanno riflettere e sono un insegnamento di vita per chi si considera «più fortunato».
Si possono così conoscere volti, storie, vite di persone che troppo spesso sono considerati, quando lo vengono, solo numeri. Anche in queste settimane abbiamo potuto conoscere bambini e adulti che ci hanno fatto riflettere, commuovere e smuovere nelle coscienze. Nei giorni scorsi dalla pagina facebook della Capanna è stata lanciata una «maratona di sensibilizzazione» per «umanizzare lo sguardo» verso «persone che in molti comuni non sono considerati nemmeno cittadini (in quanto molti non hanno diritto al voto per mancanza di residenza anagrafica)»: la frase, stampata sulle magliette che è possibile acquistare, «ESISTO NON SONO UN FANTASMA», grido che si vuole lanciare «per essere voce di chi non ha voce», «curare la solitudine e la povertà estrema con la prossimità» e far «emergere il sommerso di questo dramma, di persone «irregolari dell'amore e dei diritti» che «pare nessuno voglia riconoscere quanto valgono».
In quest’intervista Luca Fortunato ci ha raccontato questi mesi difficili e ha condiviso con noi alcune forti riflessioni.
Perché il nome di "Capanna di Betlemme" e quali sono le principali attività di quella teatina?
«Capanna di Betlemme sembra un nome con riferimento religioso, in realtà è storicamente drammatico: uscendo dal romanticismo di quando si fa il presepe e pensare ad un padre di famiglia senza prospettive, che ha un disagio abitativo e la moglie che sta per partorire e subisce i pregiudizi di ogni tempo secondo cui una donna che partorisce in albergo o nella casa altrui li avrebbe contaminati col sangue. Oggi ci sono altre discriminazioni, tra cui la povertà, l’etnia, la disoccupazione, addirittura il vivere in un’altra città. La Capanna di Betlemme si chiama così per questo, è l’ultimo posto a cui si può rivolgere chi non ha più una prospettiva, una sorta di frontiera grande dove possono arrivare i fratelli e le sorelle in preda alla disperazione. Potremmo dire che è «travestita» da casa di accoglienza ma non è solo questo: lo scopo è restituire la serenità ed offre quel che può servire per i bisogni materiali come avere un tetto, tre pasti caldi.
È un’accoglienza in forma residenziale e non un dormitorio, che lascia il disagio di non sapere dove andare durante la giornata e può durare un mese, qui si può vivere anche per un tempo medio-lungo. In questo tempo si porta avanti un lavoro per ristorare le persone e sostenerle il più possibile senza una scadenza oltre la quale si può rimanere senza prospettive. L’accoglienza della Capanna permette di arrivare all’altro, ci permette di creare una prossimità. Le parole chiave sono prossimità ed amicizia, il povero più povero non è colui che ha perso tutto ma tutti. In Italia il primo welfare sono le relazioni, se gli italiani più poveri non avessero perso tutti non sarebbero arrivati in una situazione drammatica e disperata. Alla Capanna di Betlemme si cerca di ricostruire su relazioni stabili e solide, gli operatori sono dei fratelli che portano avanti una pedagogia del «transfer». In ambito educativo si sostiene che non deve esserci un «transfer», noi lo consideriamo un grande errore perché solo com-patire, immedesimarci, provare a capire cosa prova l’altro può permettere una strategia efficace. Se non comprendiamo l’altro qualsiasi strategia sarà fallimentare e non sarà utile. Attraverso l’amicizia, parola che va sublimata nel senso di donare in modo disinteressato e pulito, compassione da intendere nel senso che ci viene dal greco ovvero mostrare simpatia, senza paure e pregiudizi, possiamo essere d’aiuto nel costruire una nuova possibilità. Le persone vengono accolte, viene proposto un percorso psicologico con un’associazione di psicoterapeuti di Chieti e attività che permettono di creare socialità e non hanno solo uno scopo «produttivo».
Partendo dalle abilità delle persone ci cerca di costruire la possibilità di un futuro autonomo, oltre la Capanna, e trovarsi anche un lavoro. Per questo siamo in rete tantissimo con la Confartigianato, le agenzie per la ricerca del lavoro e della casa. Anche quando si sviluppano questi percorsi autonomi la Capanna di Betlemme resta un punto di riferimento fin quando può essere utile alla persona, per esempio se si trova un lavoro che non permette l’auto sufficienza economica aiutiamo nel pagare un affitto o si può sempre venire per i pasti. La Capanna di Betlemme è una grande famiglia anche quando si inizia un percorso autonomo».
A Chieti, Pescara e in tutta l’area metropolitana nelle terribili settimane del lockdown come avete portato avanti le attività?
«Con l’avvio del lockdown è stato scandaloso quanto avvenuto in Italia con la chiusura di tutti i servizi di assistenza per i senza fissa dimora. Le chiusure anche dei bar, per esempio, hanno precluso a questi nostri fratelli anche le minime esigenze fisiologiche quotidiane. Una cosa allucinante! In Abruzzo, insieme a On The Road, abbiamo subito iniziato a pressare i Comuni e siamo riusciti a continuare la prossimità e garantire dei pasti. Grazie a questa spinta l’Abruzzo è stata una regione virtuosa raggiungendo obiettivi che altre regioni hanno raggiunto solo dopo mesi e quando molti fratelli si sono ammalati. Quel che abbiamo sostenuto davanti alle istituzioni era che prendendoci subito cura di questi fratelli potevamo evitare focolai e gravi rischi sanitari per tutti.
Siamo riusciti ad inserire molti fratelli in alberghi o b&b e abbiamo potuto portare avanti strutture di accoglienza. In una grande coralità tra noi, On The Road, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, associazione Emozioni di Francavilla e altre realtà. Siamo così riusciti a trovare strutture per oltre 50 persone, sono rimasti fuori i fratelli che hanno fortissime dipendenze e che non sono voluti andare in una struttura o fratelli che hanno forti problemi psichici e che nelle strutture non sono riusciti ad andare che abbiamo assistito continuamente in strada. La Caritas ha riattivato la mensa e le docce, noi abbiamo garantito la colazione e tutti i pasti. Ci chiedevano di non lasciarli mai, è stata un’esperienza stupenda, una grande corale che ha coinvolto anche organizzazioni che non si occupano dell’assistenza ai senza fissa dimora e ci hanno aiutato così come privati che ci hanno sostenuto economicamente con donazioni. Un grandissimo sostegno è arrivato dalla Caritas diocesana Chieti-Vasto garantendo un ampio budget settimanale per sostenere i fratelli che sono rimasti in strada. In Abruzzo non c’è stato nessun contagio tra i senza fissa dimora, a Roma dopo poco più di un mese in cui il Comune ha ignorato i senza tetto la Raggi ha affermato che bisognava fare qualcosa altrimenti contaminano la popolazione. Perché i senza fissa dimora non sono persone che compongono la popolazione? Stessa cosa è successa in Lombardia e in Piemonte. In tanti comuni e regioni i senza fissa dimora non sono considerati cittadini ed esseri umani perché non avendo la residenza non votano».
Ora che sembra ci si stia avviando verso la fine dell’emergenza e la riapertura quali prospettive ci sono per chi non ha una casa e non ha nessun mezzo economico? Come vi state attrezzando e quali i programmi per i prossimi mesi?
«Purtroppo alcuni fratelli che si trovavano nelle strutture di emergenza sono tornati in strada, altri siamo riusciti a re-inserirli. Abbiamo riaperto tutte le strutture ma siamo ancora in un momento di transizione. Con On The Road abbiamo gestito il piano freddo con camerate da 8 letti, adesso con la necessità di evitare assembramenti non è ovviamente riproponibile. Se fossimo stati alle porte dei mesi invernali sarebbe stato un disastro. Proseguono ovviamente tutte le attività di prossimità e stiamo cercando di rimodulare i progetti, la crisi e la mancanza di lavoro purtroppo non aiuta perché molti senza fissa dimora con i lavori stagionali potevano cercare di sostenersi».
Quali prospettive ci sono ora nella fase di «ripartenza»? Quali potrebbero essere le proposte da mettere in campo?
«Una proposta potrebbe essere facilitare l’accesso al reddito di cittadinanza, ci vorrebbe un’edilizia popolare con graduatorie dedicate a loro, non avendo la residenza non rientrano mai nelle normali graduatorie. Noi abbiamo attivato dei progetti di co-housing con appartamenti dove possono vivere anche con un reddito bassissimo, il nostro ruolo è quello di fare tutoraggio. Si è ancora molto indietro perché, come già ho sottolineato prima, i senza fissa dimora non sono considerati cittadini, la relazioni d’aiuto nascono più dalle iniziative delle associazioni. A Pescara è partito un progetto pubblico di co-housing che era stato finanziato dal 2012, dopo anni di inazione (da parte anche della precedente amministrazione di centro-sinistra) sono stati costretti a farlo partire davanti al rischio di perdere i fondi. È un progetto da dedicare ai senza fissa dimora anche se ci sono state inserite anche persone con altre esigenze: il 50% sarà destinato a cittadini pescaresi che vivono altre situazioni di disagio abitativo che in realtà dovevano già essere aiutati. Ed in tutto l’Abruzzo questo è un progetto unico. Le attività all’aperto le stiamo facendo ripartire, è chiaro che iniziative come la «tavolata senza muri» quest’anno non saranno riproponibili. Le rimoduleremo per piccoli gruppi. Fino a settembre almeno ci manterremo prudenti, sarebbe sbagliato rischiare».
Puoi condividere con noi una storia di vita che ha arricchito il percorso anche in questo momento terribile?
«Una delle esperienze più belle è stata quella di un ragazzo, con un nome di fantasia lo possiamo chiamare Gianni, disabile in carrozzina sfruttato da anni da alcuni aguzzini per l’elemosina. Gli veniva tolto quel che raccoglieva, sfamato al minimo e lasciato anche dormire per strada, aveva anche problemi di alcolismo. Sono anni che proviamo a toglierlo dalla strada ma lui ha sempre avuto molta paura dei suoi aguzzini. Durante il lockdown siamo riusciti a portarlo in una struttura per l’accoglienza, rimasta segreta, e alla fine del lockdown siamo rimasti sbalorditi perché ha deciso di restare, si è liberato quasi totalmente dell’alcol. I suoi aguzzini sono venuti a cercarlo – per loro era una fonte di guadagno enorme certo, anche di 200/300 euro al giorno – ma noi siamo riusciti a nasconderlo. È stato un bel miracolo e siamo veramente grati perché Gianni è riuscito a fuggire da terribili morse: gli aguzzini, l’alcolismo, la solitudine e l’abbandono. È rinato ed è molto più sereno, ci sono tante storie che potrei raccontare ma questa è probabilmente la più bella e che mi è rimasta più nel cuore».
uploads/images/image_750x422_5ee65759bb44d.jpg
2020-07-02 08:42:23
3