Parafrasando un remoto pensiero di Arturo Schwarz dedicato all’artista Bruno Conte recentemente scomparso direi che Maria Villano “è uno dei personaggi più garbati, più segreti, e più affascinanti che, nella mia lunga frequentazione di pittori e scultori, abbia incontrato e ammirato”. E tra i ricordi più vivi dell’estate scorsa (quando uno sprazzo illusorio aveva riposto il tempo malevolo all’angolo) c’è proprio l’incontro con Maria o, più ragionevolmente, la visita al suo studio. Perché i luoghi – in particolar modo i luoghi in cui si fa arte o la si respira – sono agore preziose, di sostentamento o di inverosimili tentazioni. Lo studio di Maria Villano è di per sé un luogo di minuscoli approdi che sembrano rifarsi – o quanto meno annodarsi – a quelli che abitualmente indichiamo come i nostri organi di senso.
Lo sguardo è un continuo pellegrinaggio tra sponde temporali che definiscono il trascorso ( le mura, i largari, i saliscendi ripidi che dal mare – al mare – cesellano stralci di pietra, angoli, nascondigli imprevisti) e il presente che del remoto è figliolanza; talvolta incorreggibile, o soltanto contraddittoria. Il suono è un vocio senza rumore; minute dicerie popolane che risalgono l’altura come cespi di calce bianca.
Come è evidente la fragranza del mare ad ogni passo – ad ogni rimonta – quasi ne assaggiassi la salsedine, non soltanto il profumo. Perché questo – il buon odore – è nelle calle di tufo o nei licheni penduli, o nel muschio intriso di umori marini.
Vive qui Maria Villano, in questo minuscolo recinto di bagliori, in queste pareti edificate dai romani antichi, e poi sommerse, e di nuovo riaffacciatesi all’occhio. E alle mani di ognuno. Perché si tocca l’affresco o il mosaico celato. O il profilo brunito della pietra che ha millenni. Vive qui Maria Villano, e a questi “cortili dell’attesa” sembra aver restituito corpo e fiato.
La loro esplorazione quotidiana si fa coesistenza e tensione all’interno di un ciclo narrativo in cui la misura della forma e dello spazio mettono a nudo l’essenza stessa di quel luogo. Come se il senso probatorio dell’appartenenza avesse “suggerito” i segnali e i capitoli del racconto. Come se l’abbondanza di indizi – gli umori, la memoria, gli affetti, l’ascolto, l’azzardo dell’occhio – confluissero in verità in una strettoia palese e si lasciassero alle spalle gli artifici “del dire e del fare” ovvero ogni superflua ingerenza. Per mostrarsi a noi nell’intensità del vero, del rigore, dell’essenza.
Ecco allora che le grandi sculture totemiche sembrano smussate non già – non soltanto – dalla mano sapiente dell’autrice piuttosto dall’alito crudele del Grecale o dal Libeccio d’inverno che ingrossa le acque e toglie ombra alla forma. Rimuovere l’ombra e restituire allo sguardo la nudità assoluta, “conquistata” oltre l’apparenza. Filiformi come betulle o faggi le sculture di Maria Villano rimandano a isole boschive o meglio ancora ad un sacrario di memorie, o ad un transito di anime. La sua “coscienza del dire” – i consapevoli indirizzi – ne fa avamposto della riflessione: sull’incombenza del tempo, sulla mutevole fragilità dell’essere, sull’inadeguata coreografia del rumore.
Ecco, il “silenzio” è, assai probabilmente, un ulteriore conforto di quel palinsesto narrativo che Maria Villano modella al pari della forma, come se entrambi fossero cuore – e dunque centralità – di un’unica occasione. In un emblematico incrocio di intenti l’opera si manifesta al di là della sua peculiare rappresentazione perché essa è al contempo corpo ed energia, forma e pulsione in un congiunto e reciproco concedersi. Una vera e propria “sincronia” di presenze che fa dell’opera il luogo intimo dove stazionano – complici – il visibile e l’indistinguibile, l’esplicito e la sua memoria.
Poi ci sono i cosiddetti “quadri”. Sparigliandone il nucleo identitario la Villano consegna all’ordinaria spazialità termini inediti; il piano si fa, di volta in volta, dipinto, collage, scrittura, circostanza. Ma non smarrisce, nella molteplicità degli esiti, quella poetica del “rimuovere” che è codice epifanico, siglatura inconfondibile della sua pronuncia. Segni minuti, cadenzati, basilari, eppure capaci di restituire allo sguardo (degli altri) quel privilegio, straordinariamente bambinesco, di leggere e scrivere l’intimità del segno.
Maria Villano è nata, vive e lavora a Formia. A Roma dal '74 all'84 frequenta prima l'Università, poi la Scuola Libera del Nudo, con Lorenzo Guerrini e Lorenza Trucchi e successivamente, l'Accademia con Antonio Scordia, Guido Strazza, Maurizio Fagiolo dell'Arco.
Dall'84 al '96 lavora tra Torino, Roma e Sicilia, dove, ospite del mecenate Antonio Presti, approfondisce la tecnica della ceramica e realizza due opere permanenti per la "Fiumara d'Arte".
Dal '97 al 2014 si è dedicata prevalentemente all'attività di educatrice.
Nel 2014 ha intensificato il lavoro di scultrice.
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2021-02-11 16:04:33
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