Negli anni venti del terzo millennio mai avremmo immaginato di rivivere nel nostro Continente le atrocità di una guerra, l’aggressione di un Paese ai danni di una nazione sovrana, libera e indipendente. Atrocità che oltre ottanta anni di pace avevano sepolto sotto una coltre di ottimismo, rotto solo all’inizio degli anni novanta del secolo scorso, quando nei Paesi dell’ex Jugoslavia si consumò una guerra altrettanto cruenta e devastante. E come in un deja-vu è proprio la guerra nella ex Jugoslavia che si ripresenta alle nostre sopite coscienze: i reportage dei pochi giornalisti rimasti sul territorio ucraino ci raccontano di episodi di stupri e violenze perpetrate dai soldati russi ai danni delle donne ucraine, presunte “sorelle” per dirla con le parole dell’aspirante neo zar di tutte le Russie, sostenitore della tesi secondo cui russi e ucraini sono un unico popolo.
Ed è proprio a quelle donne che voglio volgere la mia riflessione in questo otto marzo che, come ogni anno, si ripresenta con valanghe di mimose e improbabili auguri di una non meglio identificata festa. L’otto marzo è una giornata di commemorazione, momento di sensibilizzazione sui temi che afferiscono l’universo femminile e che spaziano dall’ambito sociale a quello professionale, dalla sfera pubblica a quella strettamente privata e familiare.
Mai come in questi giorni la figura della donna si ripropone prepotentemente secondo lo stereotipo patriarcale: le immagini che i continui servizi televisivi ci rimandano sono quelle di centinaia di migliaia di donne in fuga dalle città bombardate, che tengono per mano bambini di ogni età, hanno lasciato mariti, fratelli, padri, insomma i maschi di famiglia, a combattere per la patria. Quelle che non fuggono e che restano finiscono sotto le grinfie di altri maschi, gli aggressori, gli occupanti che attraverso la violenza sessuale si impossessano del corpo femminile che metaforicamente rappresenta il terreno di scontro e quindi di conquista.
Nel 1993 venne pubblicato un libro potente, lacerante nella sua cruda rappresentazione della realtà, dal titolo “Violentate. Lo stupro etnico in Bosnia-Erzegovina” di Ehlimana Pasic. “Lo stupro non è solo un’aggressione all’integrità del corpo, ma uccisione dell’anima. Non può esserci uccisione peggiore dello stupro” leggiamo nella prefazione di questo volume che raccoglie le testimonianze di donne che hanno subito le violenze e quelle di politici, religiosi e medici che hanno testimoniato e verificato di persona i crimini narrati.
Sembra dunque ripetersi oggi, in terra ucraina, un copione simile a quello a cui abbiamo assistito nei paesi creati all’indomani dello sfaldamento dell’unità jugoslava. Sembra tornare l’orrore nell’orrore: alla paura delle bombe, si somma e sovrappone per centinaia di migliaia di donne il terrore dello stupro. Ancora una volta il corpo delle donne diventa terreno di conquista e la devastazione psicologica che ne consegue diventa poi sottomissione finale.
La storia purtroppo non ci insegna nulla: l’uomo non impara e torna a ripetere gli errori del passato in un delirio di onnipotenza che travolge i più fragili, i più deboli, i più indifesi. E ancora una volta le donne rientrano, in maggioranza, in queste categorie, sopportando il peso delle nefandezze degli uomini.
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2022-03-08 18:23:22
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