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Pedalando su un filo d’acciaio

by Giusy Rosato
30 Dicembre 2022
in Cultura
Reading Time: 10 mins read
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“Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe visto in sé stesso”.

 

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Marcel Proust, con queste parole, ci consegna una grande verità, che sperimentiamo sfogliando ogni pagina così densa, ricca, evocativa di “Pedalando su un filo d’acciaio” di Carlo Calcagni (edizioni G.A., 2021).

Dal canto suo, Franz Kafka asserisce che “un libro deve essere un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”.

 

Allora, scorrendo ogni calda parola che, incastrandosi mirabilmente con le altre, forma frasi, periodi, costrutti che diventano trama e ordito di storie nella Storia, ti addentri con sempre maggior coinvolgimento nei capitoli che via via si susseguono, con una scrittura fluida, piana e scorrevole: come raggi armonizzati nella ruota della Vita, essi ti fanno pedalare insieme a Calcagni su quel filo d’acciaio e, come un’ascia, spezzano il mare ghiacciato delle nostre insensibilità, disattenzioni, distrazioni, indifferenze.

Non ci si può non lasciar coinvolgere e travolgere empaticamente da un flusso di pensieri, sensazioni, emozioni, vissuti che trapelano da “Un incontro speciale”, “Inverno del 1996”, “Roma, Monte Mario”, “Ichenhausen, Germania”, “Abbiamo un disperato bisogno di maestri”, “Uno schianto, più nulla”, “Come Folgore dal cielo”, “Occorre avere un sogno”, “Nemici invisibili”, “Covid-19”.

Il racconto vivido, a tratti travagliato, sofferto, arduo, duro, di quel Soldato – devoto servitore dello Stato e della Patria –, di quell’Atleta – campione supertitolato, superdecorato e fregiato di medaglie e onorificenze –, di quell’Uomo – affettuoso figlio e amorevole padre – che è il Colonnello che non si arrende mai, ti ammalia, ti incanta, ti affascina, ma, per alcuni versi, ti fa anche rabbrividire, crucciare e rammaricare.

 

Nella vita di Carlo profonde notti – la malattia devastante, l’indifferenza da parte delle Istituzioni, un silenzio assordante che grida giustizia e rivendicazione di diritti legittimi per tutte le Vittime del Dovere – si alternano a sprazzi di luce abbagliante e luminose albe – l’amore autentico dei propri cari, il profondo calore e le numerose attestazioni di stima e ammirazione da parte delle tantissime persone che incontra sui suoi sentieri e che gli dimostrano gratitudine e riconoscenza per l’onore, la dignità, la determinazione, l’altruismo, l’amore verso il prossimo, il coraggio, il sacrificio e la speranza che veicola con il suo essere ed il suo fare, animato com’è da una ferrea volontà e perseveranza nel valorizzare ogni attimo della vita che ci è data, come prezioso dono, nonostante tutto e tutti.

“Gratuitamente abbiamo ricevuto, gratuitamente dobbiamo donarci agli altri” – afferma Carlo -.

La calorosa e concreta vicinanza a tante persone che vivono nella fatica e nelle difficoltà fanno di questo eroe, campione e sognatore, un encomiabile esempio di vita. Le sue parole rimarcano l’importanza del sano rigore: la disciplina e il rispetto delle regole, sia nello sport che nella vita militare, parole che risuonano tanto come sibili (parole delicatamente sussurrate) quanto come boati (parole “urlate, gridate” perché possano essere ascoltare in assordanti silenzi di indifferenza da chi dovrebbe accoglierle e dare risposte efficaci) diventano linfa vitale, sostentamento e nutrimento dello spirito per chi lo incontra, ascolta, si relaziona con lui.

La bicicletta prima, il triciclo poi si configurano come suoi destrieri, mezzi vivi e vivificanti, che lo sostengono in continue sfide oltre i limiti, che gli permettono di sopportare le pesanti e massacranti terapie quotidiane: sette iniezioni di immunoterapia, circa 300 compresse, almeno 18 ore di ossigenoterapia, sauna ad infrarossi per almeno 60 minuti, terapia in vena che lo "lega" per almeno 4 ore alle flebo, come il "vincolo" che deve avere con il ventilatore polmonare durante la notte, per non parlare delle sedute di plasmaferesi, delle frequenti setticemie e interventi chirurgici d'urgenza.

 

Lottare e Vivere, grazie allo Sport, è il messaggio che Carlo Calcagni propaga, diffonde e trasmette, con lodevole costanza, tenacia e fermezza.

“E me ne sono andato come un acrobata sull’acqua”…

 

Da un lato, i dedali di trincee che solcavano le balze dei monti dai nomi tragicamente celebri: Ortigara, Pasubio, Cimone, Cengio, Grappa, dentro quella terribile pagina della storia mondiale, la Grande Guerra, rievocata nelle accorate liriche dell’Allegria di Giuseppe Ungaretti, dove c’è il fango, dove aleggiano il fetore degli escrementi e dei corpi in putrefazione o nuvole di gas asfissiante, dove si gela dal freddo e si crepa di fame e sete, dove si è costretti da file di reticolati, dove si consumano corpo e anima nell’attesa di un ordine che ogni volta può essere l’ultimo; dall’altro, gli errori-orrori di una guerra che dilania, devasta, squarcia, lacera corpi e anime nella Bosnia-Erzegovina del 1996, che produrrà ferite fisiche e psicologiche che non si rimargineranno più.

 

La figura dell’acrobata, di ungarettiana memoria, rimanda ad un’idea di equilibrio instabile, di precarietà, di sospensione tra la vita e la morte, legittimata dall’atmosfera di guerra nelle trincee del Carso come nello scenario di guerra dei Balcani. Calcagni, al pari dell’uomo-soldato Ungaretti, uomo di pena, è un agilissimo acrobata circense, un artista super allenato che, mentre dà prova della sua abile maestrìa, regala fortissime emozioni agli spettatori, sebbene, nel contempo, rischi tantissimo, in ogni singolo movimento del suo numero artistico.

Con le sue mirabili acrobazie, non possiamo non assimilare Carlo Calcagni all’acrobata di Wisława Szymborska!

 

Da trapezio

a trapezio, nel silenzio

dopo un rullo di tamburo di colpo muto,

attraverso l’aria stupefatta, più veloce

del peso del suo corpo che di nuovo

non ha fatto in tempo a cadere.

 

Solo. O anche meno che solo,

meno, perché imperfetto,

perché manca di ali, gli mancano molto,

una mancanza che lo costringe

a voli imbarazzati su una attenzione

senza piume ormai soltanto nuda.

 

Con faticosa leggerezza,

con paziente agilità,

con calcolata ispirazione. Vedi

come si acquatta per il volo? Sai

come congiura dalla testa ai piedi

contro quello che è? Lo sai, lo vedi

 

con quanta astuzia passa attraverso la sua

vecchia forma e

per agguantare il mondo dondolante

protende le braccia di nuovo generate?

 

Belle più di ogni cosa

proprio in questo momento, del resto già

passato.

 

La figura dell’acrobata, così cara alla Letteratura come ai colori, alle forme dell’Arte – valga per tutti la meravigliosa opera di Marc Chagall del 1914 –  è strettamente correlata a quella del saltimbanco. Carlo Calcagni, passando dai corridoi, spesso lunghi, freddi e indifferenti, del Ministero della Difesa a quelli accoglienti, calorosi e ospitali di Aule Magne di Scuole e Università di tutta Italia, pedalando incessantemente su quel filo d’acciaio, mentre è accarezzato dalla brezza soave e illuminato dal sole di Puglia, già caldo e splendente di primo mattino, che fa da maestro d’orchestra in una terra dove profumi, colori e sapori ne rappresentano i musicisti virtuosi, è “il saltimbanco dell’anima sua”, proprio come lo tratteggia Aldo Palazzeschi in “Chi sono”: il poeta che non scrive che una parola, ben strana, con la penna dell’anima sua – follia –, il pittore con un solo colore sulla tavolozza dell’anima sua – malinconia –, il musico con una nota soltanto sulla tastiera dell’anima sua – nostalgia –.

 

Quella follia, malinconia, nostalgia di cui è depositario il clown di Charlie Chaplin o di Dario Fo, proprio mentre si erge ad emblema di critica alla società, una società troppo spesso cieca e sorda a gridi di Giustizia, Onore, Onestà, Verità, quei lanternoni ormai spenti – per richiamare la lanterninosofia pirandelliana! – , cui un certo accordo di sentimenti dovrebbe ridare lume e colore.

 

E Carlo Calcagni, quotidianamente, senza la minima sosta, con il suo “MAI ARRENDERSI”, tiene perennemente accesa questa fiamma di Vita.

 

Leggere “Pedalando su un filo d’acciaio” vuol dire allora innalzare un Inno alla Vita e ci dà un posto dove andare – attraverso sogni, speranze, attese, fiducia, miraggi, orizzonti possibili – anche quando dobbiamo rimanere là dove siamo, con la salda consapevolezza dei nostri limiti e delle nostre risorse, delle nostre debolezze e dei nostri punti di forza, dei nostri vizi e delle nostre virtù, tra luci ed ombre, altezze ed abissi, valli e cime, baratri e vette.

"Pedalando su un filo d'acciaio"

https://youtube.com/watch?v=wW0j9kMzD2Q&feature=shares

 

uploads/images/image_750x422_63ad72ae44baa.jpg

2022-12-30 12:11:17

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