C’è stato un periodo storico in cui la «Terra dei Fuochi» era diventata tema nel dibattito sociale e mediatico.
Molte inchieste giornalistiche e giudiziarie, l’impegno di associazioni e comitati, un’ingiustizia disumana che uccideva bambini e persone di ogni età era riuscito a fare irruzione in un’Italia sempre troppo disattenta e concretamente indifferente. Nonostante i negazionismi e i riduzionismi stava accadendo.
Studi scientifici e le testimonianze di vita (e di morte) hanno mostrato la realtà reale e vera.
Ma, dinamica fin troppo conosciuta nella storia d’Italia, passa l’onda dell’emozione, si passa oltre come si fa col telecomando delle televisioni, e l’attenzione scema. Il mese di Aprile si chiude con il 30 aprile, il giorno in cui il linfoma – contratto durante le sue inchieste contro le discariche criminali in Campania – uccise Roberto Mancini.
Sono passati solo nove anni dalla sua scomparsa eppure, neanche nell’epoca dei fiumi e fiumi di retorica sui social, è un anniversario che passa nella “dimenticanza” di tanti.
Aprile, lo stesso mese in cui 3 anni fa salì alla destra del vertice dei vertici del commissariamento emergenza covid un protagonista di quegli anni. Dodici anni fa l’inchiesta di Rosaria Capacchione, pubblicata allora su Il Mattino, lo descrisse perfettamente.
Ma tre anni fa solo grazie a Nello Trocchia fu ricordato ed evidenziato quanto stava accadendo. E quasi nessuno ne abbiamo scritto e ci siamo indignati. Molti, tanti, troppi, hanno dimenticato Roberto Mancini e Michele Liguori.
Una memoria che non sia solo sterile retorica, che non siano fiumi di parole persino comode, continuiamo quindi a ribadire che è necessaria e doverosa.
La «Terra dei Fuochi» invece esiste, rimane, quel paradigma economico, sociale, imprenditoriale, criminale – che non è solo un perimetro geografico – è sempre in azione. Continuano ad ammalarsi e a morire bambini e persone di ogni età.
E quel sistema ad essere pienamente operativo, inquinando i territori e i tessuti economici ed imprenditoriali. Deviando dal «solco della legalità» sfruttando ogni prateria che si trova di fronte. La Procura Nazionale Antimafia lo denunciò e analizzò nel 2017. Lo abbiamo ricordato in queste settimane con Piernicola Silvis. Scrisse sei anni fa la Procura Nazionale Antimafia che «al vertice di importanti realtà imprenditoriali – scrive il magistrato Pennisi – proclivi alla sistematica violazione delle norme ambientali, e che godono della simpatia di influenti potentati politici, compaiano personaggi allenatisi nella palestra campana degli anni ’80-90, che vide il ruolo attivo delle più agguerrite organizzazioni camorristiche» ed evidenziò la presenza sempre più massiccia nella gestione cd. “legale” del ciclo dei rifiuti e un’attività sempre più forte nel Nord Italia.
Negli stessi anni in un’inchiesta per il programma televisivo Nemo (Rai2) di Nello Trocchia affermò Nunzio Perrella che il Nord “era pieno” e che in quegli anni la camorra aveva smaltito ovunque rifiuti tossici di ogni tipo.
Fu sempre Nello Trocchia a sottolineare, in un’inchiesta per Tiscali Notizie, un altro aspetto ben evidenziato dalla Procura Nazionale Antimafia.
«“La relazione è chiarissima precisando che l'essenza del fenomeno non deve essere cercata: “nelle ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, bensì nelle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo utilitaristico”.
Nel settore del crimine ambientale bisogna parlare di delitti di impresa, continuare a parlare di ecomafia, tra l'altro, produce due effetti negativi. Da un lato continua ad assegnare al crimine organizzato un ruolo che non ha più se non marginalmente, ma soprattutto non indica la vera responsabile dei disastri consumati in questi anni e scoperti dagli inquirenti: l'impresa italiana». Gli imprenditori, ci ha sottolineato Silvis nella recente intervista, «soprattutto quelli del Nord, fa comodo mollare alle mafie i rifiuti industriali pagando un quarto di ciò che pagherebbero per uno smaltimento legale».
Il commissario governativo per la «Terra dei Fuochi» Filippo Romano è al termine del suo mandato, nominato prefetto di Agrigento. In un’intervista di Toni Mira pubblicata su Avvenire – che è possibile leggere integralmente qui
– ha tracciato un bilancio di questi tre anni da commissario. Parole che rimandano al paradigma e alle analisi di Pennisi di sei anni e a quanto ci ha sottolineato Silvis nelle scorse settimane. Il modello Gomorra è superato, la narrazione nata ad inizi anni novanta delle «ecomafie» si è evoluta.
«Abbiamo un sistema di gestione dei rifiuti che non funziona» ha dichiarato Romano. «C’è un problema nel ciclo dei rifiuti» sottolinea Romano riferendosi, per esempio, allo smaltimento degli elettrodomestici: « Il 50%, i metalli, si recupera con grande vantaggio economico, un altro 30% si recupera senza grande vantaggio ma lo si deve fare per non inquinare, il restante 20% è la frazione irrecuperabile che dovrebbe “nutrire” i termovalorizzatori o le discariche che sono l’ultima ratio dei rifiuti.
Invece li troviamo abbandonati dopo che è stato recuperato solo quel 50%, del tutto illecitamente». «Nella generale illegalità qualcuno trova più comodo buttare – prosegue l’ormai quasi ex commissario – questo vale per tutti i reati e nasce quando il comportamento illecito è più conveniente e più facile del comportamento lecito. Più rendiamo difficili le cose, se non stiamo attenti a rendere difficile l’illegalità, più questa diventa conveniente. E c’è chi ci guadagna».
Agli imprenditori del Nord fa comodo mollare i rifiuti alle mafie, coscienti di farlo
Roberto Mancini, il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi
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Una legge contro inquinatori, devastatori ed eco camorre che ancora «non s’ha da fare»
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2023-06-06 16:13:28
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