- «Sono stato giudicato da un tribunale morale»
- «Bisogna riformare la giustizia»
- «Il clan dei casalesi è indebolito, ma non è sconfitto»
«Conoscendo la professionalità di alcuni magistrati, come Melillo, Gratteri, Ardituro, mi sento rassicurato. Schiavone deve essere, però, incalzato. Per evitare che possa fare come alcuni collaboratori che hanno sparso veleno contro persone che hanno combattuto con i fatti questo mondo criminale. Ci sono da scoprire le coperture in ambito dello Stato e con i servizi segreti, ovviamente facendo luce anche sui capitali mafiosi. Quali erano gli ambienti dei servizi che incontrarono Michele Zagaria presso Caianello? Sappiamo che due agenti avvicinarono alcuni esponenti del clan per affrontare la questione rifiuti». Inizia in questo modo, con una trattativa tra una parte dello Stato e la camorra, la nostra conversazione con Lorenzo Diana (nella foto in alto), già onorevole e componente della Commissione parlamentare Antimafia. Una persona perbene che da sempre, in un territorio “caldo”, ha guardato in faccia questa gentaglia. Non fa parte dell’antimafia parolaia, molto dannosa per la lotta alle mafie. Dalla sua terra, San Cipriano d’Aversa, ha sfidato i camorristi. Con i fatti. E in quei territori, negli anni d’oro della mafia casalese, non si scherzava. I mafiosi controllavano le istituzioni, gli affari e, militarmente, il territorio. Per 21 anni è stato messo sotto scorta, protetto dalle reali minacce mafiose del clan che aveva sentenziato la sua morte a causa della continua opposizione. Altri pericolosi avvertimenti sono arrivati nel corso degli anni. Lorenzo Diana, per il suo impegno, ha pagato. Ha toccato con mano anche la malagiustizia. È stato accusato ingiustamente dai pentiti, ha subìto il pressapochismo da parte di alcuni magistrati. Ecco il pericolo che può nascere dalla gestione approssimativa dei collaboratori di giustizia e, purtroppo, in questo Paese tanti sono gli esempi che si potrebbero fare: la vergognosa vicenda di Enzo Tortora – accusato, arrestato e ingiustamente imprigionato con una condanna in primo grado e poi assolto con formula piena – li racchiude tutti. L’On. Diana ha saputo dimostrare la sua estraneità. La sua onestà ha prevalso su tutto e, soprattutto, su tutti. In un Paese civile tutto ciò non dovrebbe mai capitare. Lo abbiamo contattato per ragionare insieme sulla decisione di Francesco Schiavone, meglio conosciuto come Sandokan, di “saltare il fosso” dopo 26 anni di silenzi. La belva mafiosa venne arrestata nel lontano 1998. «Siamo di fronte ad una scelta di collaborazione per convenienza, non siamo di fronte a un pentimento delle sue azioni criminali».
Quali sono le convenienze?
«Possono essere svariate. Nessuno può entrare nella sua testa nel momento in cui ha valutato questa scelta. Convenienze, probabilmente, legate a liberarsi dal peso del carcere. Vive da ventisei anni al 41bis, in un sistema carcerario solitario. Sia le questioni del carcere sia le questioni familiari possono aver inciso».
Come la scelta della moglie Giuseppina Nappa?
«Già in passato, gli altri figli e la moglie, hanno scelto di collaborare. Gli unici due figli che non hanno scelto questa strada sono Emanuele, appena uscito dal carcere – all’epoca aveva diciotto anni – dopo dodici anni di reclusione, ed Ivanhoe, libero a casa sua, che non ha accettato la proposta di trasferimento nel programma di protezione. (Schiavone ha sette figli, nda). Ovviamente con questa collaborazione cade anche il mito della famiglia Schiavone dentro l’organizzazione. E ferma la possibilità di proseguire, per qualsiasi figlio, il ruolo di capo di una organizzazione».
Secondo il giornalista Sandro Ruotolo, oggi componente della segreteria nazionale del Pd, Schiavone “potrebbe diventare il nostro Tommaso Buscetta”. Lei concorda?
«Penso che debba essere fatta la differenza. Buscetta divenne un serio pericolo per l’intero clan perché era braccato. Avevano sterminato molti familiari ed era lo sconfitto nel contrasto con i corleonesi. Non aveva altra scelta e, nello stesso tempo, scattò un meccanismo rispetto alla strage dei familiari. Si dimostrò molto utile allo Stato per debellare la mafia. Schiavone non è stato braccato dal clan, né sconfitto e né ha avuto perdite di familiari. Per cui le motivazioni sono alquanto diverse. Non sono assolutamente convinto che sia una cosa del genere. Siamo di fronte a due motivazioni diverse. In Buscetta scattò la volontà di far crollare tutto il clan dei corleonesi. Con Schiavone siamo in un contesto diverso».
Cosa è cambiato sul territorio di Casal di Principe?
«Il cambiamento non avviene dalla mattina alla sera. Ma c’è un dato.»
Quale?
«La collaborazione di Schiavone è la rottura più eclatante del patto associativo camorristico».
Perché?
«Viene meno all’associazione l’ultimo capo storico. Schiavone è il capo che afferma agli occhi di tutti che ormai non regge più quel patto. In nome di quel patto i clan, e tanto più lo stesso Schiavone, hanno massacrato e ammazzato centinaia di persone. E hanno ammazzato i familiari dei primi collaboratori di giustizia».
Dario De Simone, ad esempio.
«Fu il collaboratore con il più alto ruolo nel clan dei casalesi all’epoca, quando iniziò la collaborazione ricevette la reazione, l’assassinio dello zio del fratello. La collaborazione veniva punita anche con la morte dei familiari. Stessa cosa avvenne con altri collaboratori. Oggi siamo di fronte a collaboratori che crescono, ovviamente sono la riprova di uno sfaldamento del clan e di un’azione incalzante da parte dello Stato e di alcuni magistrati».
Può cambiare qualcosa?
«Questa collaborazione toglie copertura a tutti gli attuali affiliati non ancora arrestati e toglie qualsiasi alibi a chi ha ritenuto, ed è successo per quasi mezzo secolo, che quello fosse il mondo reale. Hanno pensato che quella fosse l’unica realtà e conveniva adeguarsi, intessendo rapporti economici sia nell’adeguarsi al potere camorristico sul territorio. Oggi queste scelte cadono. Anche l’imprenditore che si sentiva sicurissimo di lavorare con il clan, oggi, deve valutare le nuove collaborazioni. Capiscono che non c’è una sicurezza a stare con la criminalità, soprattutto perché viene meno il mito dell’organizzazione. La camorra casalese affermava con il giuramento un patto di appartenenza che non poteva essere tradito. Lo sgarro veniva punito anche con la morte. Dentro questo patto c’era anche l’assistenza all’affiliato, con lo stato sociale nei confronti della famiglia dei camorristi. Tutte queste garanzie vengono meno. Questo cambiamento era già iniziato prima ma oggi c’è la conferma che non è quella l’unica realtà possibile. Tante fette della società si erano adeguate anche culturalmente».
Possiamo spiegare meglio questo interessante concetto?
«Consideriamo che nella zona del clan casalese, che comprende quattro o cinque comuni, c’è una popolazione di appena 50mila abitanti. Nel tempo sono state arrestate tra 1500 e 2mila persone. Se pensiamo che ciascun arrestato abbia una contiguità nei rapporti con sette, dieci persone noi ci troviamo davanti a una realtà che ha visto circa 15mila persone – su cinquanta mila – avere a che fare in qualche modo con la camorra».
E questo cosa fa capire?
«Quale sia stato il dominio culturale, economico e di potere sulla società in quel territorio, in quello che era un vero e proprio cratere della camorra. Questo fa capire che il cambiamento non può essere repentino. Quando una realtà tocca 15 mila persone, poco più di un terzo della popolazione che ha avuto a che fare con il clan anche indirettamente – non per affiliazione, ma per convenienza – è evidente che i tempi sono più lunghi. Tocca arrivare ad una nuova forma di convivenza. Sicuramente i cambiamenti sono percepibili e si respira la speranza che si possa costruire una nuova fase. Anche collaborare non è più rischioso come una volta. Oggi ci sono molti familiari che non si sono trasferiti. Il cambiamento, a cui abbiamo lavorato nel tempo, sarebbe stato impensabile in passato, quando i casalesi decidevano sindaci e assessori».
A proposito di “sfaldamento del clan” dobbiamo prendere in prestito una dichiarazione del magistrato Maresca: “la mafia casalese ormai non esiste più”. Lei è d’accordo?
«Sono contrario agli annunci vittoriosi e trionfalistici, ogni volta lanciati all’indomani di qualche operazione o di qualche notizia. Non si affronta così un problema che ha radici profonde, dalla camorra rurale di oltre un secolo fa si è passati ad una camorra imprenditrice mafiosa. Credo che sia un’affermazione troppo frettolosa e superficiale».
Perchè?
«Il clan ha vissuto di un esercito di affiliati che è stato valutato intorno alle 600 persone, ma probabilmente siamo oltre questo numero. Siamo di fronte già all’arresto di mille e duecento persone, dato comunicato dall’allora Procuratore della DDA di Napoli in Commissione Antimafia. E sono passati vent’anni. La camorra, organizzazione di potere e di arricchimento che utilizza la violenza a tale scopo, non è che scompare nel momento in cui arresti gli eserciti. Per 50 anni quel clan ha accumulato tanta attività economica, tanto capitale investito in tutto il mondo. Non è che quando arresti l’amministratore delegato, anche di livello, finisce quella realtà. La dichiarazione è molto affrettata. Penso che non bisogna cedere alla tentazione di annunci trionfalistici da parte di qualsiasi persona che abbia fatto qualche operazione».
È possibile mettere le mani sul capitale accumulato da parte del clan?
«Nessun collaboratore del clan dei casalesi, ma non solo, ha dato elementi per ritrovare questi capitali. Antonio Iovine, l’altro capo, e il figlio Nicola non hanno offerto assolutamente nessun aiuto per il ritrovamento del patrimonio e, soprattutto, sulle attività messe in piedi dal clan con i propri prestanomi. La magistratura è ancora in ritardo».
In che senso?
«Si è dedicata molto a far luce sugli omicidi e sui colpevoli. Però sui patrimoni ha portato a casa scarsi risultati, pochi beni confiscati. Talvolta sono stati fatti interrogatori superficiali pur di aver qualche notizia. E la cosa mi riguarda personalmente. Furono fatte delle indagini farlocche. È necessaria grande professionalità. La grande scuola lasciataci da Falcone e Borsellino comincia a mostrare il fiato corto in parecchie Procure. Ci sono magistrati di grande valore ma c’è anche un modo, talvolta, troppo lento e troppo superficiale nell’affrontare la realtà. Il clan dei casalesi poteva essere sconfitto prima».
Quando?
«Dopo l’Operazione Spartacus del 1995 e dopo le altre indagini si poteva affondare il bisturi. Invece, talvolta, ci si limita a cogliere in superficie il risultato di un arresto, senza affondare il bisturi nel momento opportuno. E questo è un altro momento opportuno».
Lei ha affrontato questa lotta dall’interno del loro regno.
«Un insieme di esperienze vissute, di ricerca e di studio che mi ha portato a far parte della Commissione Antimafia, altra cosa rispetto a quella di oggi. Non si può dichiarare che la camorra è finita. Non ci troviamo di fronte a semplici delinquenti straccioni. Abbiamo avuto notizie di capitali utilizzati in tutta Europa, dalla Scozia all’Est Europa, dalla Germania alla Svizzera, dalla Spagna e in tanti altri Paesi del mondo, abbiamo avuto notizie fondate di collaborazione di traffico di droga dalla Colombia al Sud America con i due più grandi narcotrafficanti della Campania, come Umberto Ammaturo compagno di Pupetta Maresca. Questo soggetto era legato fortemente ad Antonio Bardellino, di cui Schiavone Sandokan è stato l’autista. Fu Bardellino a proporre ad Umberto Ammaturo di prenderlo come suo autista. Questo ragionamento è per dare l’idea di cosa fosse il clan dei casalesi. Bisogna capire come sia nato».
Diciamolo.
«Schiavone inizia come autista, piazzato da Bardellino, con Ammaturo (il più grande narcotrafficante della Campania, poi diventato collaboratore). L’altro, Alberto Beneduce, era il referente dello spaccio della cocaina per conto del clan dei casalesi. Dire che la camorra non esiste più significa limitarsi a pensare che la camorra fosse un mero gruppo di affiliati arrestati. Il problema è il potere economico che ha consentito al clan di entrare in tanti altri territori».
Come, ad esempio, la finanziaria creata nel Veneto.
«Che serviva a fare usura legalizzata. Un gruppo del clan dei casalesi creò una società finanziaria che soccorreva aziende in difficoltà per poi impossessarsene perché non ce la facevano a reggere. Questa non è attività da straccioni ma è opera di ingegneria finanziaria industriale. Molto è stato già scritto e rivelato. Ma c’è ancora molto da scoprire sulle collaborazioni e sulle coperture che hanno avuto dalla politica. Non solo da Cosentino ma anche da altri personaggi, anche all’interno delle forze di polizia. Il Procuratore di Napoli ci rivelò che gli appartenenti alle forze di polizia indagate, stiamo parlando già di venticinque anni fa, erano varie centinaia. E pensiamo anche alle complicità che hanno lambito prefetture e Tribunali. E c’è un altro elemento sui cui si è fatto poco».
Qual è questo elemento?
«Le tante attività economiche che continuano ad operare. L’impresa avviata dalla camorra ha acquisito nel tempo la professionalità per continuare ad agire, non solo con la minaccia derivante dal potere intimidatorio del clan, ma anche dal potere corruttivo. L’imprenditore che vince gli appalti nello stato attuale, in cui il codice degli appalti ha elevato la soglia dell’affidamento senza gara d’appalto, la fa da padrone. Questa imprenditoria ha le mani persino in stazioni appaltanti. Hanno un monopolio sul territorio e finché ci sarà questa gente che ha acquisito la professionalità trasmessa dalla camorra siamo in presenza del nervo che foraggia famiglie e ambienti della camorra».
Questa rete formata anche da imprenditori e da politici si sente al sicuro dopo la scelta di Schiavone?
Fine prima parte/continua
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2024-04-18 16:00:28
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