“Polvere bianca / polvere bianca / ti odio! / Sei dolce e sei amara / come una donna / sei pura e
sei buio. / Giovani odiatela / la polvere bianca / sì! vi fa volare / per poi farvi / ritornare nel buio
più cupo./ Vola per l’aria / limiti di un’anima / fatta a pezzi / si tocca il fondo / i fatti diventano
voragini buie… / e poi di colpo / i dolori si placano / e il cielo è un’esplosione di luce / poi più
nulla. /
L’indomani / solo un trafiletto sui giornali / ennesimo giovane morto: per droga. / Polvere bianca
/ ti odio”.
Sembra quasi paradossale, se non addirittura ironicamente tragico, che i versi così incisivi e icastici di questa poesia siano stati composti dalle stesse mani efferate, disumane, crudeli di colui che ha vissuto quasi ininterrottamente 58 anni della sua vita in carcere, fino alla morte: il boss di
Ottaviano, fondatore della Nuova Camorra Organizzata (NCO) Raffaele Cutolo, detto anche “‘O Professore”.
Droga e mafie, criminalità organizzata e traffico di stupefacenti: un chiasmo nefasto, che rimanda alla malvagità di incroci tra cosche, Paesi, rotte nazionali e internazionali.
Lo aveva intuito, compreso e analizzato perfettamente un singolare uomo di carattere, dedito allo
Stato e all’impegno civile, irriducibile nella sua lotta alla mafia, portata avanti con intuizioni e
metodi innovativi.
Di chi si tratta?
Del magistrato con “la religione del lavoro”, principi solidi e una profonda umanità: il coraggioso promotore del primo pool antimafia del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici.
L’odiata dolceamara polvere bianca fu proprio una delle principali cause dell’eliminazione fisica di
una persona tanto perspicace e lungimirante, quanto scomoda.
«Palermo come Beirut»: così si leggeva sulla prima pagina del quotidiano L’Unità, che dava la
notizia della strage, avvenuta il 29 luglio 1983 a Palermo, nel centro della città, in via Giuseppe
Pipitone Federico all’altezza del civico 59, presso l’abitazione del magistrato.
L’attentato fu compiuto alle ore 08:05 di quel fatidico venerdì 29 luglio, quando una FIAT
126 color verde oliva, imbottita con 75 Kg di tritolo, fu fatta esplodere con un telecomando a
distanza, proprio nel momento in cui il giudice Chinnici, 58 anni, stava salendo in macchina per
recarsi al Palazzo di giustizia.
“Religione della casa” e “religione del lavoro” si armonizzano mirabilmente nel santo laico, fino all’ultimo respiro esalato: famiglia e lavoro, affetti cari e dovere i pilastri-guida della sua vita di uomo, marito, padre, servitore dello Stato.
La strage di via Pipitone fu il primo attentato “libanese” di Cosa Nostra. L’aggettivo accostava la Palermo martoriata dalla guerra di mafia dei primi anni ’80 alle strade di Beirut. In effetti, via Pipitone Federico a Palermo venne devastata dall’autobomba. Con il giudice morirono i carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta. Insieme a loro morì Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile in cui il magistrato abitava; diversi furono anche i feriti.
Nel boato dell’esplosione riecheggiò assordante la sua acuta perspicacia; nel cratere sull’asfalto la sua profonda lungimiranza.
Cosa aveva capito Rocco Chinnici di tanto fastidioso?
Paolo Borsellino parlava di lui come di una grande mente che già alla fine degli anni ’70, quando ancora le conoscenze sul fenomeno mafioso erano molto lacunose, era riuscito a intuire prima di tutti cosa fosse Cosa Nostra e le sue connessioni con l’alta finanza, la politica e l’imprenditoria.
Scrive Borsellino: “Le dimensioni gigantesche dell’organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici”.
Il magistrato stava coordinando le indagini sull’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e aveva annunciato per i giorni successivi importanti nuovi sviluppi a proposito; inoltre, nella sua agenda c’erano vari approfondimenti sulle indagini relative ai rifornimenti di eroina dei clan mafiosi siciliani.
L’uccisione del giudice fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa per le indagini che il magistrato conduceva sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici.
I Salvo appartenevano alla famiglia di Salemi e avevano un ruolo di raccordo, nel panorama
politico siciliano, quali esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario.
“La mafia – affermava Chinnici – è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi
accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi.
La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. […] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”.
Sullo sfondo di tutto ciò una Palermo dapprima felice, poi tormentata dalla seconda guerra di mafia e addolorata per le morti dei ragazzi a causa dell’eroina, attraversata da una profonda
trasformazione urbanistica e sociale, ma sempre sovrastata da un cielo azzurrissimo e illuminata da una luce accecante.
È proprio di fronte a questo cielo azzurrissimo e a questa luce accecante che il giudice Chinnici non può accettare, con passiva rassegnazione, che la droga possa risucchiare di giorno in giorno in un vortice letale giovani e giovanissimi.
Nel mercato aveva fatto ormai completa irruzione l’eroina. Quando le indagini resero difficile
l’esportazione della droga negli Stati Uniti – quell’idea clamorosa di Tano Badalamenti di creare una rete di spaccio nelle pizzerie italiane negli Stati Uniti venne, infatti, smantellata dall’operazione “Pizza Connection” – la nuova feroce Cosa Nostra dei Corleonesi sconfessò i vecchi boss e il mantra secondo cui il commercio di droga andava bene, purché fatto all’estero. Venne dato così il via libera a vendere il prodotto anche in Sicilia e in Italia. Tutti i piccioli facevano ricchezza.
Si assistette, così, ad una trasformazione non solo criminale, ma anche antropologica e sociologica.
A Palermo, infatti, si cominciò a vendere la droga in tutte le strade. E il giudice Chinnici fu il primo
a comprendere l’esistenza di uno stretto legame tra i piccoli spacciatori e i grandi criminali, che si
stavano arricchendo a dismisura. Si accorse cioè che la portata del fenomeno avesse una dimensione finanziaria – grandi capitali che si accumulavano e che venivano reinvestiti nelle forme più diverse – e un riscontro pratico, in strada: una generazione di giovani che cominciava a bucarsi e a morire.
Il “maestro” dei giudici Falcone e Borsellino era talmente ossessionato dalla droga che andava nelle scuole – è stato il primo magistrato a farlo – coinvolgendo altri magistrati e intellettuali. Purtroppo, restò inascoltato. Ne parlò nei convegni, scrisse relazioni. Lanciò ai giovani un appello disperato, che allora sembrava una provocazione: «Ragazzi, se volete sconfiggere la mafia, non drogatevi!».
Rocco Chinnici è morto perché sosteneva che i ragazzi che morivano per la droga, in strada a Palermo, erano vittime della mafia quanto i magistrati, i poliziotti o gli imprenditori che si
ribellavano al pizzo. Tra questi ragazzi potevano esserci – e probabilmente alcuni vi sono anche
stati – quegli stessi ragazzi a cui rivolgeva costantemente i suoi accorati moniti.
Rocco Chinnici è morto perché voleva chiudere un cerchio. E quel cerchio ancora oggi non si è
chiuso.
Ma, affinché il suo sacrificio non sia stato totalmente vano, oggi che la Sicilia è diventata un
hub internazionale della droga, come il porto di Gioia Tauro in Calabria per il traffico di cocaina, è doveroso continuare la sua opera per chiudere il cerchio, ciascuno per il ruolo che ricopre: genitori, insegnanti, educatori, Istituzioni, comunità civile tutta, attuando una rivoluzione culturale a partire dai giovani, riponendo in loro la sua stessa fiducia: “Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che domani dovranno prendere in
pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare”.
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2024-07-29 16:10:59
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