Caro direttore,
qualche giorno fa mi sono imbattuta per l’ennesima volta in una locandina che patrocinava un incontro con ragazzi, associazioni, assessori comunali e dirigenti scolastici, che aveva come titolo “IO TI RISPETTO”! Ho perso le staffe! Perchè, nonostante le buone intenzioni dell’iniziativa, il titolo nasconde un sottotesto discriminante: (io ti rispetto) nonostante tu sia rotto o tu sia diverso da me.
Mi è parso di capire che nel tempo il concetto di rispetto abbia assunto il ruolo di soluzione a qualsiasi conflitto derivi dalle differenze dell’essere umano. “IO TI RISPETTO” diventa la formula magica da utilizzare nei discorsi sull’inclusione e diversità. A mio avviso, questa affermazione, apparentemente innocua ed ampiamente utilizzata, nasconde un enorme paradosso, una discriminante nella discriminazione: il fatto stesso di sottolineare “rispetto” lascia intendere che il concetto stesso rinforzi le gerarchie e le disuguaglianze che si propone di superare.
L’attestazione in sé implica l’assunzione di una posizione di superiorità. Chi “rispetta” diventa soggetto attivo, il concessore; mentre chi viene rispettato, diventa oggetto passivo che subisce la concessione. Converrà con me che si viene a creare uno scompenso fondamentale che si oppone al modello di uguaglianza che il costrutto si propone di promuovere.
Questo squilibrio è lapalissiano quando il rispetto è espresso verso gruppi sociali marginali, quasi a sottolineare che l’identità dell’altro è una “variante avariata” di dettami dominanti. E così il rispetto si trasforma in una nuova forma di indulgente tolleranza invece che un riconoscimento naturale.
Tollerare significa letteralmente: resistere pazientemente a cose, persone o situazioni spiacevoli. “La tolleranza è una nozione condiscendente: tolleri ciò che non approvi” (S. Žižek, filosofo).
La moltitudine di manifestazioni pubbliche per i diritti di ogni genere e il riconoscimento delle diversità nascono in risposta ai limiti che la tolleranza non tollera (altra bizzarria)! Essi infatti non chiedono tolleranza, ma al contrario il riconoscimento di espressione legittima e universale dell’uomo.
L’alternativa più idonea al concetto di “rispetto” come concessione è quella del riconoscimento autentico, che non si fonda su principi di superiorità, ma su uno stato di parità. “Riconosco la tua umanità completa, che include le tue specifiche caratteristiche”.
Ma il riconoscimento autentico non si professa, perché dovrebbe manifestarsi spontaneamente nelle relazioni con gli altri, nei diritti che garantiamo, negli spazi e nel linguaggio che adoperiamo. Non è una concessione, ma normalità, attitudine innata dell’uomo.
Lasciar credere ai ragazzi che portare rispetto sia qualcosa di eccezionale non è educativo, perché dovrebbe essere la normalità. È come far passare il concetto che per avere ciò che dovrebbe essere riconosciuto a tutti naturalmente, è necessario prima che esso sia visibile agli altri, poi rivendicato e per ultimo normalizzato.
Il vero rispetto non è ciò che si sostiene nelle manifestazioni o eventi pubblici, ma è quello che si attua rendendo antiquata la necessità stessa di dichiararlo.
Proporrei invece di rivedere le espressioni adoperate quando si parla di inclusione.
Piuttosto che promuovere dibattiti dal titolo “Io ti rispetto” proviamo ad educare i nostri giovani a riconoscere le differenze di ognuno come parte formativa e fondamentale della natura umana e che a nessuno dovrebbe essere “concesso” il diritto di essere così com’è.
Solo quando saremo in grado di non classificare più alcuni individui sotto la categoria “normali” ed altri in quella “da rispettare” avremo davvero superato ogni discriminazione, anche quella nascosta dietro la generosità di un “ti rispetto”, che, mi ripeto, riconferma la subordinazione che vorrebbe demolire.
Cordialmente,
L.L.74
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