Di solito, una presentazione letteraria è un momento di incontro. Ma quella del 27 marzo 2025 alla Biblioteca Angelica di Roma, storica culla della cultura italiana, è stata qualcosa di più: uno scontro di visioni, un cortocircuito tra la narrazione istituzionale e la memoria.
A catalizzare il contrasto: l’intervento dell’on. Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera, e quello di Paolo De Chiara, giornalista d’inchiesta e direttore di WordNews.it.

Il monologo istituzionale dell’on. Mollicone apre la giornata con una dichiarazione d’intenti in perfetto stile cerimoniale, celebrando l’evento e l’autrice, anche se con toni generici e piuttosto autoreferenziali. Parla di “luogo dell’anima”, della “cultura come motore immobile”, lancia cenni storici all’Italia del dopoguerra, a Mattei, Olivetti, alla ricostruzione nazionale. Non cita mai direttamente il cuore del romanzo, evita temi scottanti – le questioni di genere, le violenze mafiose, le discriminazioni – che pure sono centrali nell’opera. Piuttosto, ricuce la narrazione dentro un perimetro comodo, retorico, in linea con la visione di una cultura al servizio della rappresentanza istituzionale.
Il suo intervento, però, sembra più una passerella che un confronto reale con il testo. E soprattutto, manifesta un chiaro fastidio quando emergono voci meno allineate.
La sua uscita repentina e senza saluto a fine intervento non è passata inosservata: né all’autrice né al pubblico attento.

Paolo De Chiara e l’urgenza civile. Il tono cambia drasticamente. Nessuna diplomazia, nessuna vetrina. Il suo è un intervento che spacca l’aria. Ricorda le vittime della mafia, denuncia l’ipocrisia istituzionale del “ricordo” solo a fini celebrativi. E cita Pasolini: “Viviamo in un Paese senza memoria”.
Parla di Lea Garofalo, di Maria Concetta Cacciola, di Graziella Campagna – donne uccise perché troppo coraggiose per piegarsi. Denuncia l’ignoranza politica e culturale, quella stessa che crea consenso e indifferenza. E con un affondo che non passa inosservato, cita anche Don Lorenzo Milani, ricordando che “ogni parola non imparata oggi è un calcio nel culo che prenderete domani”.
Non è solo un intervento, è un pugno nello stomaco al cerimoniale istituzionale. Un modo per dire che la cultura non può essere ridotta a passerella da Palazzo, e che non può ignorare chi paga con la vita l’impegno civile.
Due visioni inconciliabili. Quello che si è consumato alla Biblioteca Angelica non è stato solo un dibattito, ma un confronto tra due mondi: quello della cultura usata come vetrina politica e quello della cultura vissuta come resistenza, denuncia, lotta.
L’uno schiva i conflitti, l’altro li nomina. L’uno costruisce cornici rassicuranti, l’altro le spacca. E il fastidio dell’on. Mollicone – che si è sottratto al confronto, evitando anche il saluto finale – è il segno più evidente che quando la cultura fa davvero il suo mestiere, il potere si innervosisce.
Il romanzo Una storia in chiaroscuro di Nina Giordano ha innescato un corto circuito, ha rotto lo schema. Perché la cultura, quando è viva, non cerca il consenso, ma il senso. E allora ben venga il fastidio, ben vengano gli attriti: se una presentazione letteraria riesce a creare tutto questo, significa che ha colpito nel segno.
Anche a costo di disturbare il potere.
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