Il 5 aprile sarebbe potuta essere una data di risveglio civico, un’occasione per far sentire la voce di un popolo stanco, confuso, arrabbiato. Invece si è trasformata nell’ennesima puntata di uno spettacolo grottesco, dove il confine tra la realtà e il teatrino social si fa sempre più sottile. A catalizzare l’attenzione è stata, ancora una volta, Rita De Crescenzo. Sì, proprio lei: l’ex volto virale dei social, ora autoproclamatasi paladina del popolo, con tanto di ambizioni politiche.
Ma siamo seri: davvero vogliamo essere rappresentati da chi ha costruito la propria notorietà tra balli improvvisati, scandali giudiziari e frasi a effetto da diretta Instagram? Davvero avevamo bisogno di lei per scendere in piazza, per farci sentire, per chiedere risposte?
La verità è che stiamo scambiando il rumore per pensiero, la viralità per valore. E il fatto che sempre più giovani vedano in figure come questa un modello, un punto di riferimento, un’alternativa, dovrebbe farci tremare i polsi.
Non è una colpa essere diventati famosi per caso. È una colpa, però, credere che la notorietà sia di per sé una qualifica per parlare a nome di un popolo. Ed è una colpa ancora più grande quella di un Paese che accetta tutto questo senza batter ciglio, anestetizzato da una quotidianità fatta di contenuti mordi e fuggi, indignazioni lampo e memorie a breve termine.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, anche gli Stati Uniti mostrano crepe sempre più evidenti: le sommosse contro Trump, il clima da guerra civile fredda, l’odio che serpeggia sotto la superficie. Cambia il palcoscenico, ma non il copione. Anche lì, la democrazia si piega sotto il peso di leader che parlano alla pancia e mai alla testa.
E allora torniamo alla domanda centrale: che fine ha fatto la testa? Dove sono finiti il pensiero critico, la capacità di distinguere, di capire, di analizzare? La risposta è semplice, quanto dolorosa: li abbiamo sacrificati, giorno dopo giorno, sull’altare dell’intrattenimento.
E soprattutto, li abbiamo dimenticati perché abbiamo dimenticato l’importanza dell’istruzione.
Sì, perché il vero male profondo di questo Paese non è solo la disinformazione ma l’ignoranza strutturale. L’istruzione pubblica viene mortificata da anni, i fondi si riducono, gli insegnanti sono lasciati soli, i programmi svuotati. Mentre altrove si investe in scuola, ricerca, università, qui i giovani migliori prendono un biglietto di sola andata per Berlino, Parigi, Londra o New York, portando via con sé sogni, talento e speranza.
I cervelli fuggono. E chi resta è sempre più disilluso, disorientato, preda di chi urla più forte o promette scorciatoie facili. È in questo vuoto educativo e culturale che proliferano i nuovi “leader”, le nuove “icone” più che altro simboli di un vuoto, di un’assenza, di un collasso.
L’istruzione è l’unico vero argine contro tutto questo. È l’unica arma non violenta che può restituirci un futuro degno, che può insegnarci a scegliere, a discernere, a non cadere nel tranello dell’apparenza.
Non abbiamo bisogno di influencer in politica. Abbiamo bisogno di menti lucide, coscienze vigili, spiriti critici.
E forse, prima di scandalizzarci per chi ambisce a rappresentarci senza alcun merito, dovremmo chiederci: che cosa abbiamo fatto noi, come società, per permettere che accadesse? Perché se siamo arrivati a questo punto, il problema non è solo chi sale sul palco, ma chi costruisce quel palco, chi lo applaude, chi ne alimenta la fama.
Il cambiamento non parte da un like. Parte da un’aula scolastica. Da un libro letto. Da un professore che ti apre gli occhi. Da una scuola che non si limita a istruire, ma insegna a pensare.
E fino a quando l’Italia non capirà che senza istruzione non c’è futuro, continueremo a cadere sempre più in basso. Fino a dimenticare cosa significa davvero essere cittadini.
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