Sempre più spesso a livello globale capi di stato, membri del governo e loro pretoriani arrivano al potere senza avere le competenze ma contando sulla demagogica oralità aggressiva che fa leva sullo stato di malcontento endemico nella gente che deve sbarcare il lunario con un lavoro mal retribuito ovvero accontentandosi di sopravvivere da precario a vita.
L’ignoranza della politica è subdola e al tempo stesso geniale perché si alimenta con l’ignoranza degli stessi elettori. Il popolo ignorante, risorsa per i regimi, deve essere conservato tale, per assicurare il potere ai decisori politici.
La cultura è una disgrazia per i regimi totalitari e, in generale, per i governi che vedono una minaccia al proprio potere nella democrazia e in tutti gli istituti che ne sono garanzia politica, giuridica o morale.
E non deve sorprendere che coloro che detengono il potere spesso mancano delle conoscenze di cui avrebbero bisogno mentre coloro che possiedono quelle conoscenze non hanno il potere. È una realtà di cui si dovrebbe avere consapevolezza.
Sorprende che ancora oggi, dopo millenni di cammino dell’evoluzione (civiltà?) i “sapiens” non abbiano imparato nulla dalla storia della conoscenza (quella che ha assicurato non la mera la prosecuzione della specie ma la sua evoluzione)?
È ragionevole pensare che impareremo dalla storia dell’ignoranza che questa nostra epoca offre variegati esempi di incompetenza, arroganza, ottusità al potere?
Chi, dopo la mirabolante monarchia sabauda, una devastante ideologia nazi-fascista che ha partorito l’aberrazione di vent’anni di dittatura, chi ha creduto in una generazione di «illuminati» capaci di assicurare al Belpaese floridità economica, diritti umani, si sente oggi schiantato in un desolante senso di vuoto, schiantato in uno stato che ha smarrito il senso sociale, malato di corruzione, burocratizzato e dalle tasche bucate, con proclami di fantapolitica, con un apparato legislativo elefantiaco che sforna troppe norme o troppo poche e uno giudiziario incapace di farle rispettare.
Gli italiani che desiderano biodiversità economica, giustizia, inclusione e politici competenti e affidabili crescono in numero esponenziale. La gran parte – giovani e, tra i meno giovani, chi si impegna nella Cultura dell’Umano – non può, a ragione, dare la propria fiducia ad una politicanza sempre più becera e asservita alle logiche della poltrona da occupare ad libitum.
Un esempio “topico”.
Gli eventi promozionati come culturali si riducono ormai ad un’occasione scenica per troppi politici che vi si imbucano in forza di uno scranno istituzionale. Sono occasioni per dare il peggio di sé, per desertificare il contesto nella consapevole volontà di parlare di sé (se si ha padronanza di linguaggio), di leggere un resocontello scritto da chissà quale scrivano, di celebrare notizie di partito nel o per il quale si lavora, di sottoscrivere comunicati pubblicati con devastanti errori concettuali o mortificanti svarioni morfosintattici. Al confronto fuggono e maleducatamente, in spregio alla gente che da invitata alla presentazione di un libro viene brutalmente costretta a sopportare le loro estenuanti elucubrazioni retoriche.
È un palinsesto sempre più a rischio radicalizzazione. L’autore/autrice si ritrova marginalizzato in uno spazio residuale ai limiti della chiusura dell’evento e insieme all’intervistatore condannato a rispondere al pubblico circa il perché non è stato dato spazio al dibattito, il perché non si è dato valore all’opera sulla quale l’evento stesso si proponeva incentrato, il dover ripetere che i “salutanti istituzionali” autarchicamente saccheggiano tempo e luogo in nome di una cultura oracolare di cui sono numi tutelari.
Una sorta di movimentismo verbale li anima, incuranti dei rischi di abuso. E’ una perversione che dalla gente di palcoscenico ha finito con il conquistare ampie fette di oracolanti: giornalisti vitaliziati, professionisti con competenze multitasking e la totalità dei politicanti molto dotati di oralità e molto poco di idee. Relativamente a questi ultimi, in particolare, la perversione tanto più grande si manifesta in ogni spazio in cui domina maggiormente l’affermazione dell’immagine. Ciò conforta la sensazione, quasi universale, e per la verità non infondata, che si ha della politica un’idea abnorme, generatrice di risonanze spropositate.
L’attuale politicanza non opera in funzione del “dover fare la polis” (principio cardine della democrazia, secondo la civiltà greca) ma di chi la coltiva facendone un’accademia nepotistica più che uno strumento per lavorare e ottenere risultati per il bene comune. Come può codesta consorteria, mi chiedo, presentarsi in occasione delle presentazioni di libri e di saggi che hanno per tema la denuncia di dinamiche socio-economiche senza alcuna altra mira che quella di apparire?
A fronte di una collettiva voglia di affermazione di valori, di cultura, di trasparenza, di competenze, di buona educazione, di etica del lavoro, di morale della politica qual è il senso di simili comparsate?
Mi concedo una riflessione che spero possa essere smentita in un futuro possibile.
Liberarsi dal proprio ego e dalle autoassoluzioni è un primo passo verso un’alterità rigeneratrice.
Il secondo è decidere da quale parte si vuol stare: con gli ominicchi o tra i sapiens.
I primi sono gli insulsi che vaticinano e oracolizzano teorie distopiche (alla squid game) da sè stessi concepite e diffuse a cura di brainless attratti da vantaggi futuri o futuribili.
I secondi non perdono il senso dell’evoluzione della civiltà e dell’Umanità .in famiglia, nel lavoro, nella società si assumono responsabilità e doveri in ragione del ruolo, riconoscendo i propri errori, valorizzando i meriti altrui con oggettività, rifuggendo dalle logiche del ricatto morale, sentimentale o eversivo. Sanno i Sapiens che solo così si scongiurerà l’incentivo alla proliferazione degli ominicchi e all’ecatombe che, a giudicare dalle attuali evidenze emergenti in tutti i contesti, riserverà loro la Natura.