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Freedom for Gaza: tra guerre, ipocrisie globali e il diritto alla sopravvivenza

Un'analisi cruda e tagliente del conflitto israelo-palestinese. Dalle radici storiche alle responsabilità globali, tra geopolitica, religioni strumentalizzate e la tragedia umanitaria di Gaza. Un grido contro il genocidio, per la libertà e la dignità umana.

by Redazione Web
26 Maggio 2025
in Punti di vista
Reading Time: 16 mins read
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di Michelangelo Di Stefano

Nella stupida storia del mondo si sono inseguite, e susseguite, pompose guerre sante – tutte sempre e solo colorate di quel rosso carminio pronto a raggrumarsi – denominate alla bisogna “crociate”, su cui avevano alitato porporati grassi con la papalina agghindati d’oro e invocate in nome di un dio che poco aveva a che fare con il Cristo in croce sul monte Golgota.

Altrettante volte etichettate dalla jihad, questa volta nell’interpretazione più estremista delle chiose annotate su quel testo che vuole Maometto conteso, a giorni alterni, tra i più meritevoli sunniti o tra i suoi parenti stretti sciiti.

In questa chiassosa Torre di Babele che la mitologia della Genesi ci ha lasciato senza, però, riuscire a farci comprendere il perché di quella punizione divina alla nostra scellerata ambizione umana, si va ad aggiungere il vociare di altre comunità che prediligono le icone ortodosse alle interpretazioni maggioritarie del credo.

Ma l’assurdo è che tutto questo frastuono sia recintato dentro un fazzoletto di terra che non è solo il più antico al mondo ma, anche, il più narrato nelle scritture sacre, annotato sui papiri con l’inchiostro degli amanuensi o rilegato nei secoli a seguire dai monaci, come quelli del convento di Soriano Calabro, con i caratteri tipografici che la Galassia Guthenberg, di cui parla Mc Luhan, ha traghettato fino ai giorni nostri.

La contesa di cui si sta trattando abbraccia quella zolla arida piena di sterpaglie che Matteo aveva descritto per annunciare l’arrivo del Profeta a Gerusalemme in groppa a un’asina.

La sagacia di noi conterranei del Paesello di Giufà, ci riporta spesso alla metafora dei cedri libanesi, ma non per ricordarci che si tratta della Terra Santa, bensì per offrire una descrizione colorita delle nostre strade e dei nostri scheletri murari mezzi sgarrupati: “uttana pari chi simu a Beirut”!

Non abbiamo swicchato la stessa metafora verso Gaza, perché il solo parallelismo che potrebbe trovare triste abbinamento è quello delle città rase al suolo, ma non come nel 1908 con il terremoto di Messina, piuttosto con quelle megalopoli che, sapientemente, la scienza che non pensa – ci bacchetterebbe Heideger – ha pensato bene di abladere con Enola Gay, maturando una frustrazione lunga quattro anni dopo la falla di Pearl Harbor.

Saccenti potrebbero disquisire di questa gran porcata, che va avanti non so più da quanto tempo, con pomposi trattati geopolitici: o quagghju, come diciamo in francese dalle nostre parti, dopo la dipartita dei conquistadores britannici nel lontano 1947, la convivenza di due popoli dentro quel lembo di terra è diventata da subito liquida.

Di certo non stiamo parlando di quella liquid modernity che ci hanno descritto i sociologi, bensì di quella pozza di sangue, dolore e morti da una parte all’altra delle mura oggetto di contesa; e pensare che la più nota cyber antropologa dei giorni nostri, spiegandoci il concetto di Electropolis, aveva da tempo urlato a squarcia gola: “decostructing boundaries and costructing the community”.

La ratio di questo ennesimo “the wall”, sarebbe stata l’asserita impossibilità di convivenza tra due comunità – quella araba da una parte e quella del neofita movimento sionista dall’altra – come avrebbero voluto invano le Nazioni Unite, ormai un contenitore di soldatini col casco blu, ridottosi a una scatola vuota – che avrebbe portato al primo conflitto tra arabi e israeliani del 1948, con una guerra che avrebbe determinato la nakba, il primo esodo della popolazione araba palestinese manu militari: altro che la repressione scelbista di Nomadelfia, per chi la ricorda ancora!

Di lì a poco, la crisi di Suez del ’56, imbrattata di petrolio, scorie di esplosivo e carcasse di cingolati, avrebbe fatto comprendere che il dio dei potenti della terra, non guarda né alla Mecca né, tantomeno, alla Basilica di Pietro.

Il “re dei re” puzza di benzina, è impolverato di cocaina ed è adornato di pietre e topazi estratti, con le unghie rotte, da bambini a cinque anni dentro un buco senza luce.

Il nuovo scempio sarebbe avvenuto nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni e l’occupazione di Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est e altri territori, fino alla battaglia del Kippur del 1973.

Ovviamente qualcuno doveva sempre alitare sulle braci dell’odio, cercando, e ottenendo con estrema facilità, di contrapporre due mondi che avrebbero dovuto, al contrario, convivere in pace e armonia.

Potremmo fare scarne elencazioni a iosa, dalle bombe alle olimpiadi di Monaco del 1972, alle mitragliate di Fiumicino l’anno successivo, per andare avanti fino alla noia, ma a cosa servirebbe oggi tutto ciò?

Un dato storico rilevante è, certamente, quello della costituzione di un movimento che avrebbe giocato con più mazzi di carte: Yasser Arafat, il leader dell’O.L.P., non avrebbe disdegnato di schiacciare l’occhiolino dall’altra parte dell’Oceano anche perché, dalla storia moderna che noi ricordiamo, c’è sempre stato qualcuno abile nel gioco di “tira a petra e mmuccia a manu” e “fari u sceccu nto lenzolu”.

La strategia del terrore più recente ha annotato una jihad che abbiamo visto sfrecciare tra i deserti e le montagne afgane su jeep occidentali dietro la misteriosa faccia di Osama Bin Laden, un tempo al soldo di barbe finte che non parlavano di certo arabo.

Un prodotto “USA e getta” – ci si perdoni la disambiguazione semantica – al servizio di quell’intelligence che conta e di quel big brother – sempre pronto a guardarci – che un profeta vero, come quel tal George Orwell, ci aveva anticipato nel lontano 1949, ben prima del reality “Grande Fratello”, in Nineteen Eighty Four e, ancor prima, il nostro conterraneo Corrado Alvaro in “L’uomo è forte” del 1938.

L’elenco di questi toy boys, sceicchi o generali che siano, decorati quanto sacrificabili, sarebbe lungo e stucchevole, dal Cile di Augusto Pinochet al canale panamense di Manuel Noriega fino all’Uganda di Idi Amin Dada, giusto per ricordarci di qualcuno.

Uno scenario holliwoodiano, all’indomani delle Torri Gemelle, che avrebbe visto da una parte gli arancioni abusati a Guantanamo – in un raffinato regime giuridico di extraterritorialità in culo alla luna sull’isola di Cuba – e dalla parte opposta altrettante tute arancioni decapitate con una scimitarra al grido di Allah Akbar, in mezzo al deserto con la sedia da regista.

Ma mettiamo per un momento da parte tutta questa merda e cambiamo argomento: ecco, allora, “la fogna del comportamento” di cui aveva parlato John Calhoun con l’esperimento di “Universo 25” studiando i topi in sovrannumero.

Un concetto assimilabile per ogni forma di sovrappopolamento, adottato anche da Edward Hall nella sua “dimensione nascosta”, spiegandoci che “la logica dell’azione aggressiva vuole che l’impulso aggressivo si estingua quando il vinto ne ha avuto abbastanza”.

Ma come? Dovremmo, quindi, ritenere che a Gaza, quei poveri cristi, non siano ancora sazi di prendere legnate stando alle proiezioni degli scienziati?

Frugando qua e là, ci siamo imbattuti in un brillante paper che profuma di Milan Kundera, titolato “L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TRAGICO”.

Qui non viene considerata la logica machiavellica del fine che giustifica il mezzo, ma si parte dalla teoria del duplice effetto, quel principio etico formulato da Tommaso d’Aquino idoneo a valutare la moralità di un’azione che, pur avendo un effetto buono, può anche avere un effetto negativo.

Il passo successivo è la trattazione di una questione bioetica, apparentemente banale, che ha come fulcro il quesito del problem solving di un carrello ferroviario senza controllo che rischia di uccidere una o più persone, noto nella letteratura con il termine di carrelologia, o trolleyology, giusto per usare un prestito rivolto a cu non parra riggitanu.

La variante problematica più recente e nota, formulata da David Edmonds, riguarda il dilemma del ponticello: un treno fuori controllo sta per passare sotto un ponticello dove c’è un uomo grasso.

Sul binario ci sono cinque uomini, che moriranno se il treno non arresterà la sua corsa. Il treno potrà essere fermato solo spingendo l’uomo grasso giù dal ponticello.

Ma se nelle versioni precedenti del quesito il dilemma etico riguardava l’eventualità di manovrare uno scambio, uccidendo in alternativa cinque persone piuttosto che una, questa volta il problema è: chi se la sente di gettare l’uomo grasso sotto il ponte? (in altri termini: chi se la sente di compiere il genocidio di un popolo?).

Le persone, infatti, sono generalmente inclini ad azionare la leva dello scambio ferroviario, ma non a spingere l’uomo grasso giù dal ponticello per arrestare la corsa del treno fuori controllo.

Questo dato è stato confermato anche da successive ricerche di psicologia morale.

Tale “convergenza quasi incredibile delle risposte a dispetto delle differenze di età, di religione, di sesso, di cultura, di livello di istruzione, di precedenti conoscenze di filosofia morale” non può non sorprendere, al punto che per Ruwen Ogien “ciò che vi è di universale nelle nostre reazioni morali è solo la loro incoerenza”.

Ecco, allora, che attraverso il dilemma etico del male minore siamo riusciti ad avere le idee un po’ più confuse sul perché il ricercato internazionale per crimini di guerra più osannato in Occidente stia ancora mettendo in bella mostra il proprio pisello per dimostrare che, piaccia o meno, ce l’ha ancora più lungo di tutti!

Scusate la scurrilità ma, cazzulata, possiamo pure capire che il servizio segreto più famoso al mondo si sia fatto infinocchiare il 7 ottobre con la debacle più eclatante della storia e che, come fallo di frustrazione, quello stesso governo sanguinario abbia pensato bene di ridurre alla fame una popolazione inerme rea di essere oppressa da un regime terroristico, ma perdonateci, perché questo sterminio abbia fine dobbiamo forse tornare ai forni crematori o spolettare una nuova bomba H?

Eppure gli stessi cittadini della stella a sei punte protestano da mesi e mesi perché questo conflitto insensato abbia fine, addirittura arrivando a marciare fin sotto il palazzo del rais per poi imbastire una nuova intifada da quest’altra parte delle mura.

Un ultimo concetto qui fin troppo attagliato, che ci hanno regalato questa volta gli psicologi, è quello della “piramide dei bisogni”: se al vertice di quella piramide vi sono i bisogni di autorealizzazione di un individuo, alle fondamenta si trovano quei bisogni di base, fisiologici e di sicurezza.

E non bisogna scomodare il padre di quegli studi, Abraham Maslow, guarda il caso figlio di immigrati ebrei fuggiti da Kiev alla persecuzione degli zar di Russia, per comprendere che mangiare, bere, avere un tetto e un cencio per vestirsi, sia il minimo sindacale per ogni essere umano.

Non bisogna scomodare le carte universali, le costituzioni, i protocolli e tutte quelle cagate che, se vanno in armonia con le strette di mano atlantiche sono ineccepibili, granitiche, tassative e impugnabili quale casus foederis ex articolo 5, altrimenti diventano carta straccia e i “palazzi di vetro” vanno in frantumi al primo alitare del vento.

Quanti governanti della Terra sono oggi, ancora, in grado di vedere quel cielo stellato sulla loro testa che aveva stupito Kant; quanti di quei governanti sentono, ancora, oggi il frastuono di una legge morale nella loro anima?

Oggi a Gaza il suono più forte, ad ogni boato, è quello dei bambini che piangono, fino a quando avranno la forza del loro ultimo afflato.

Eppure David Larible con il suo nasino rosso ci ha insegnato da anni, ma oggi non ce ne siamo ancora accorti, che “il suono più bello del mondo è un bambino che ride”.

FREEDOM FOR GAZA!

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