Dopo la Seconda guerra mondiale, il mondo fu ricostruito su nuove fondamenta economiche. Nel luglio del 1944, a Bretton Woods, 44 Paesi alleati si riunirono per creare un nuovo ordine economico globale. Fu un momento di rottura con il passato, che vide l’affermazione del keynesismo e di un ruolo centrale dello Stato nel dirigere la crescita, stimolare la domanda e redistribuire la ricchezza.
L’economista John Maynard Keynes auspicava la creazione di una moneta neutrale internazionale, legata al valore dell’oro, per garantire equilibri tra le nazioni. Ma furono gli Stati Uniti a imporsi, facendo del dollaro la valuta di riferimento globale, ancorata all’oro con un tasso fisso. Nacque così il cosiddetto gold exchange standard, con cui si cercò di coniugare stabilità monetaria e crescita globale.
Il sistema funzionò relativamente bene fino agli anni ’70. Ma nel 1971, sotto la presidenza di Nixon, gli Stati Uniti decisero unilateralmente di sganciare il dollaro dall’oro: finiva così il sistema di Bretton Woods. Due anni dopo, la crisi petrolifera del 1973 accelerò il processo. Si liberalizzarono i movimenti di capitale, si permise la delocalizzazione produttiva, e si gettarono le basi per la finanziarizzazione dell’economia globale.
Henry Kissinger, in un’abile manovra geopolitica, legò l’acquisto del petrolio ai dollari americani, imponendo di fatto il petrodollaro come unico mezzo di scambio. Tutte le economie del mondo cominciarono a dipendere da una moneta emessa da una sola nazione, senza più alcun legame reale con la produzione o con riserve auree.
Il Medio Oriente divenne strategico, e la stabilità di quell’area fu compromessa da un continuo interventismo geopolitico, volto a garantire il controllo delle risorse. Le dinamiche regionali furono manipolate per favorire interessi strategici ed economici, trasformando il petrolio in una leva di potere globale.
Il nuovo sistema favorì l’economia finanziaria a discapito dell’economia reale. Il denaro generava altro denaro, con meccanismi speculativi sempre più complessi. Ma la ricchezza prodotta non veniva distribuita equamente. Si accentuò la concentrazione del potere economico, e si ridussero le garanzie sociali e i diritti del lavoro, soprattutto nei Paesi industrializzati.
Con la caduta del muro di Berlino, il neoliberismo si diffuse anche a Est, completando la sua egemonia globale. Il modello appariva vincente, ma in realtà era un gigante dai piedi d’argilla.
Nel 2008 esplose una crisi economica epocale, causata proprio dall’eccesso di finanziarizzazione e dalla deregolamentazione dei mercati. Le sue ferite sono ancora aperte. Mentre l’Occidente scivolava nella stagnazione, l’Asia – e in particolare la Cina – cresceva sfruttando la delocalizzazione produttiva voluta dal capitale globale. Così, gli stessi Stati Uniti hanno pagato il prezzo del modello che avevano imposto, vedendo ridursi il loro potere industriale e il benessere delle classi medie.
Parallelamente, le crisi ecologiche, sociali e demografiche si sono aggravate. Le disuguaglianze sono aumentate, e il pianeta si trova oggi sull’orlo di una crisi di sistema. Le tensioni geopolitiche, le guerre per le risorse, la fragilità delle democrazie, l’iperconnessione dei mercati: tutto contribuisce a rendere l’attuale modello insostenibile.
Mai come oggi emerge l’urgenza di ripensare l’economia globale. Serve una nuova Bretton Woods, un accordo internazionale che superi l’egemonia unipolare e costruisca un sistema multilaterale, equo, sostenibile e realmente redistributivo.
Un modello che riporti al centro:
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la persona e non il profitto;
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la produzione reale e non la speculazione;
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la cooperazione tra Stati, e non la competizione sfrenata;
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la tutela dell’ambiente come priorità, e non come optional.
Senza una riforma radicale del sistema economico globale, le crisi continueranno a esplodere, in un mondo sempre più instabile e imprevedibile. Il tempo è poco. La scelta è tra evoluzione e collasso.