«Operai sniffano cocaina prima di mettersi al lavoro, video shock». Sono meno delle dita di una mano coloro che in questi giorni sui social non si sono imbattuti in post con questa didascalia. Nel video gli operai sono pixellati, non sono riconoscibili. Ma quale lavoro stanno svolgendo è fin troppo chiaro, la zona di Roma per chi la frequenta è individuabile.
Quindi, nell’epoca della comunicazione più massiva possibile, se non sono stati riconosciuti già da decine, centinaia, migliaia di persone manca poco.
Lo scandalismo e il sensazionalismo ancora una volta la fanno da padrone, una “gogna mediatica” ripetuta contro alcune persone e si passa oltre. Abbiamo avuto persone tritate, distrutte, devastate, da gogne, vite spazzate via fino al suicidio. Ma, quando non si hanno davanti colletti bianchi e papaveroni dell’alta società, padroni e padrini, potenti e pre-potenti il copione si ripete sempre uguale. Garantisti con i forti, forcaioli con i più deboli. Sotto ogni post di questo “video shock” innumerevoli i commenti in cui si legge di tutto, in cui vengono vomitati insulti, pendagli da forca e altro contro gli operai ripresi.
Andiamo oltre il velo di Maya, oltre il sensazionalismo del momento, lo squallido balletto dei social. Fiumi di droghe da fin troppi anni sono tornati ad invadere l’Italia, il consumo è in netto aumento da anni. Nell’Italia che negli anni Settanta fu teatro dell’operazione “Blue Moon”, in cui sta arrivando sempre più (ed è un’emergenza gravissima) il Fentanyl. Oggi droga pericolosissima la cui diffusione non è iniziata certo casualmente e le prime colpe paiono essere la versione bianca dell’origine di “Blue Moon”.
La cocaina è diffusa anche nei posti di lavoro? Ci sono lavoratori che ne fanno uso? Quanti potrebbero essere? Le risposte a queste domande non vanno cercate, si trovano nel passato di questo Paese orrendamente imbelle. Sono passati oltre dieci anni da inchieste giornalistiche che hanno denunciato e documentato quel che stava (e sta) accadendo e come lo sfruttamento, l’alienazione, il ricatto padronale è tra le cause, la radice dei fiori del male. Ma ricordare tutto questo è scomodo, non è immediato, impone riflessioni, analisi, prese di coscienza collettivi. Molto più facile e comodo fare i puritani borghesi dietro uno schermo, esercitare la squallida arte del perbenismo benpensante, partecipare all’ennesima gogna contro l’ultimo anello della catena.
«Il proletariato non è soltanto una classe che soffre… La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in Inghilterra». E’ un’idea semplice quanto straordinaria quella di Engels e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un’idea che ha cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».
A che punto è la storia, 170 anni dopo l’indagine di Engels?
Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare un’improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l’amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della fabbrica tanto per provare, l’esaltazione e il cuore che batte a mille, l’adrenalina che all’inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l’astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose».
«Tanto i delegati quanto un ufficiale dell’antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa, dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti più accorti.
Il silenzio è d’oro
Non sempre i rapporti delle forze dell’ordine con la sicurezza aziendale sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all’azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l’utilizzo delle cimici nel tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica – dice Antonio – è saltato l’ordine. E l’azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un’interlocuzione con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».
«La fabbrica è diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l’80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni».
Loris Campetti, Il Manifesto, 14 maggio 2008, inchiesta sulla Val di Sangro in provincia di Chieti, articolo integrale qui https://ilmanifesto.it/archivio/2003128126
«Sono macchine fatte di carne e vanno a cocaina. Si dopano per aumentare le prestazioni, per vincere lo stress e reggere i ritmi. La prendono a casa prima di uscire la mattina. O sul lavoro. Magari in pausa. In cantiere. Negli spogliatoi del deposito dei tram, dell’ospedale, nella cucina del ristorante. Sulla cabina del camion. Nei bagni del Parlamento (ricordate l’inchiesta delle Iene? Un parlamentare su tre positivo ai test anti droga) e del tribunale. In taxi. Prima di mettersi alla cloche dell’aereo. Con la polvere bianca riescono a lavorare anche 15 ore senza staccare: se non per uno, o più, “richiamini”. C’è chi il “doping” è convinto di dominarlo, e se ne serve a piene narici. Ma poi diventa una scimmia, e ti schiaccia. È così che la droga invade il mondo del lavoro. Una categoria dopo l’altra. Chi sono i nuovi schiavi della sniffata-professionale? Quanto è diffusa?»
Paolo Berizzi, La Repubblica 23 febbraio 2012, inchiesta “Il nuovo mercato della cocaina
Ecco chi sniffa per lavorare meglio”, articolo integrale qui https://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/inchiesta-italiana/2012/02/23/news/i_mestieri_della_coca-29596899/index.html