di Raluca Bardini
Il 14 Gennaio 2016 veniva a mancare Franco Citti, fratello di Sergio, due “ragazzi di vita” che hanno avuto un posto speciale nella vita di quel maestro di origine friulana che a Roma possedeva solo una bicicletta. Il loro cognome è noto nel cinema pasoliniano, l’indimenticabile: “Mo sto bene” di Accattone ed il suo volto che colpì molto il regista friulano.
Ma Accattone chi era? Era Franco a dargli il volto e non Sergio. Accattone è la Roma che oggi non esiste più. La Roma delle borgate così amate da Pasolini, è la Roma che ha respirato e indossato Pasolini. La Roma che oggi si fatica a trovare. I fratelli Citti sono stati uno dei colori della vita romana di Pier Paolo Pasolini, una Roma che ha amato, odiato, consacrato, invidiato, invitato, osservato, stretto, picchiato, lasciato andare quel ragazzo che a soli ventisette anni arrivò alla stazione di Roma nel 1950, consapevole che Roma sarebbe stata la sua nuova casa.
Sergio e Franco Citti sono stati tra i primi insegnanti di Pasolini quando si sentiva “povero come un gatto del Colosseo” e raccontava la sua sensazione ne Il Pianto della Scavatrice. Pasolini definì Sergio Citti come: “Lessico vivente romanesco”. Pasolini ha portato sul grande schermo un lineamento della città così tanto amata per Vacanze Romane e per La Dolce Vita che nessuno aveva mai osato registrare.
Pasolini farà diventare uniche le fattezze di Franco Citti con Accattone, portandolo nei volti della storia del cinema. Ma questo a Franco Citti non interessava.
Franco e Sergio non hanno mai tradito i loro tratti romani, sono rimasti come Pier Paolo Pasolini li aveva incontrati: belli, veri e innocenti. Pasolini, nel 1962, descrisse Franco Citti con queste parole: “Ancora cucciolo, timidissimo, con gli occhi d'angoscia della timidezza e della cattiveria che deriva dalla timidezza, sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima indecisione: il senso quasi di non esistere che egli cova dentro di sé. Per contraddire questa sua ingiusta incertezza d'esistenza, egli non ha altri strumenti che la propria violenza e la propria prestanza fisica: e ne fa abuso. (…) Come tutti coloro la cui psicologia è infantile, Franco ha un profondo senso della giustizia. Sente profondamente la propria colpa quando commette qualcosa di ingiusto e non sa ammettere che altri compiano qualcosa di ingiusto. Questa consacrazione, avvenuta nella sua infanzia, di un fondamentale senso di giustizia, e quindi di colpa, fa sì che tutta la sua vita sia pervasa da qualcosa di mitico, di rigido, di immodificabile (come in tutte le consacrazioni). Ha dovuto costruirselo da sé questo senso di giustizia (nelle strade della Maranella, negli istituti di educazione), e l'ha fatto male. Lui e Accattone sono la stessa persona. Accattone naturalmente è portato ad un altro livello, al livello estetico di un “grave estetismo di morte" come dice il mio amico Pietro Citati ma in realtà Franco Citti e Accattone si assomigliano come due gocce d'acqua”
Franco Citti incontrò Pasolini ad un semaforo, il regista era in compagnia di Sergio Citti, a quei tempi Franco era un imbianchino: “L'incontro con Pasolini è avvenuto in un semaforo. Io facevo er pittore edile, er pittoretto. Trovai al semaforo mio fratello Sergio che parlava con lui, m'ha presentato. Ero sporco de calce, siamo andati a magnà 'na pizza, me ricordo pure che l'ho dovuta pagare io pure, perché era sabato e avevo preso pure la settimana. Pasolini in quel periodo aveva solo una bicicletta ed era insegnante elementare a Ponte Mammolo”. L'ultimo desiderio di Franco Citti era quello di raggiungere il fratello e Pier Paolo Pasolini.
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2020-01-17 16:44:49
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