Ha un’espressione bonaria Enzo Sabatini. Come se il tempo avesse definito, una volta per tutte, i margini geografici del volto e delle mani. E degli occhi sprovveduti, colmi di una stranezza quasi bambinesca, fertile, duratura. Ma l’occhio dell’artista non è forse il luogo della curiosità smisurata o l’erbario fecondo che accoglie ogni specie di sogno?
Eppure mi pare di scorgere, in questa “geografia del corpo”, il senso di una intransigente rinuncia al silenzio o all’esemplificazione del proprio dire. Nonostante i pronunciamenti misurati, poco rumorosi, intimamente raccolti come tracce rinnovabili di un lavoro in progress. Una sorta di dualismo primitivo direi.
È probabile che esista, all’interno della “sostanza” artistica di Enzo Sabatini, un periodare conflittuale – mai sopito, in verità – fatto di approdi mai definitivamente sottratti alla precarietà, o all’incertezza che è prologo della mossa a venire. “L’immagine, invece che stare dentro al quadro, ne fuoriesce, ma con fuga di breve respiro, perchè ben presto si trova imbrigliata da un riquadro successivo, il quale a sua volta…e così via all’infinito”. Renato Barilli scriveva così di Giulio Paolini e mi sembra di avvertire – seppur per forme e intenti meno allineati – lo stesso peso che Sabatini pittore attribuisce al suo incedere. Come se una sorta di dubbio incalzante ne tracciasse le traiettorie a venire o ne contaminasse l’idea originaria.
Ma di ognuno di noi – e degli artisti in particolare – va ripercorso il “tempo privato”, quello che attribuisce forse il senso distintivo dell’andare; ovvero il tempo che accoglie a sé l’esilità delle stagioni, le nostalgie del ripensamento, l’assennato rincorrersi delle memorie. Ed è da qui, probabilmente, dalla cronaca spicciola che ci offre il giorno, che dovremmo avviare il nostro resoconto. Da quella cresta di confine, tra l’Abruzzo e il Lazio, dove Enzo Sabatini è nato; su quel crinale che è frontiera dettata dal buonsenso o dalla stoltezza degli uomini.
Gli Ernici erano un popolo nobile. Oggi il loro nome sopravvive come cordigliera minuta capace di frenare il vento ad ogni giro di boa tra i sassi e le labbra dei pianori d’ombra. A questi monti, che hanno visto nascere e morire la figliolanza eletta, altri uomini hanno attribuito un ruolo di spartiacque rassicurante, comunque capace di difendere le cifre di un vero e proprio codice genetico.
A questo “umore” radicato appartiene Sabatini pittore; a questa terra di misurate frenesie egli fa ritorno, di tanto in tanto, con l’occhio vigile destato dalla memoria. Da qui, probabilmente, da questo luogo dell’origine, bisogna partire per afferrare le ragioni – e l’essenza – di una pittura gravida, fin dall’inizio, di un corpo narrativo incentrato su un principio “epico” della natura che non è territorio arcadico di gradevolezze prospettiche, di cieli incontaminati o di rossori d’alba. La “natura” di Sabatini è nodo di arsure per “uccelli da passo colpiti in un incrocio di venti”– come direbbe l’amico poeta Alfredo Bonazzi – ; è grumo di pieghe millenarie e di case di biacca rovente, scarne, essenziali come il pasto degli uomini che hanno rinunciato finanche alle parole. Una natura epifanica, sospettosa del suono sconosciuto, dell’ombra che scivola oltre il canneto e i rovi, o del silenzio che cede alle lusinghe della sera.
Ecco, il prologo della pittura di Sabatini si consuma in questo “tempo rurale” che ha cromatismi di spessore, rapidi, quasi relazionati in un divenire di morsure congruenti, al pari dell’acido che semina – scava o ingrossa – il segno sull’armatura di rame o di zinco.
Questa è l’energia dell’origine con la quale fare i conti; il luogo antropologico da narrare com’è nel destino di ogni artista: con uno sguardo sempre meno retinico ma prodigo di miracolata lungimiranza. E l’antefatto del viaggio narrativo si consuma proprio in questo alveo, intimo ed epocale al contempo.
Produrre un racconto consolante – schiacciato sulla mediazione equilibrata del constatare – ovvero incarnare il senso, perfino viscerale, di una natura “contagiata” dalla sua stessa storia e da quelle repertate degli uomini? E’ oltremodo una scelta di linguaggio che implica contenuti e strumenti prospettici, formali e cromatici profondamente difformi. Sostare all’interno di un realismo esemplificativo e confortante o riassumere – “per soppressione di tutti gli elementi suscettibili di essere chiamati oggetti”, è ancora Barilli che mi viene in aiuto – il vissuto come volano irrefutabile dell’intera narrazione?
Opta per questa via meno “pacifica” Enzo Sabatini, comunque assillato, fin dall’inizio, - riaffiora il primitivo dualismo – da una celata volontà di raccordare, cucire, di mettere in comunicazione animi e occhi distinti.
Ma la funzionalità di questa equazione, oltremodo ribadita da un prezioso scritto di Valeriano Mariani risalente al lontano 1971 –“pittura di questo artista ha raggiunto un prezioso equilibrio tra la figurazione post-impressionista e l’astrattismo, determinando così, nell’osservatore, spontaneamente, quello stimolo a rivivere in se stesso la dinamica interna delle opere, come intima ricerca d’ un raccordo felice tra l’immagine reale e il suo naturale trasferimento nel linguaggio astratto ma costruttivo” – trova la sua più ampia applicazione negli argomenti pittorici suggeriti da Sabatini negli anni ottanta e novanta quando l’armonia delle fonti e delle resistenze trova la sua più alta definizione in una sorta di rigorosa “organizzazione linguistica” che è totalità di un’esperienza creativa vissuta e rielaborata all’interno del grande confronto maturato nella pittura italiana novecentesca.
Ma la compenetrazione quasi naturale di cifre narrative originariamente poste agli antipodi, se non addirittura portali di identità – culturali, storiche, poetiche – di conflitto, non avviene, nella pittura di Sabatini, come disincantata mistura di caratteri o quale furbesco compiacimento di un apparente sguardo mimetico. La rielaborazione degli “ingredienti” è per Sabatini un processo lungo e incalzante fatto di smemoramenti necessari e di abbandoni sofferenti, di pause periferiche o di rinnovate risorse. Fino a distinguere – quasi a separare – i due nodi confluenti, a ridefinirne le sembianze, a comprenderne i caratteri e le geometrie. Come se nel percorso intrapreso sopravvivesse la necessità – o il desiderio – di conoscere a fondo lo sguardo introspettivo dei “fratelli” di viaggio, la loro indole, la loro naturale appartenenza, il torto o la ragionevole complicità.
Di Sabatini conservo due piccoli dipinti – oltre a minuscole “cartoline” acquerellate inviatemi dalle sue oziose stazioni di sosta – segno generoso e premuroso di una instancabile militanza affettiva. Ebbene, queste due opere sono a mio avviso le emblematiche individualità della compensazione perseguita: la sintesi meditata di un innegabile astrattismo e la benevola strategia di un originale realismo. Sabatini ne colmerà le distanze e le utopiche asserzioni. Fino a definirne l’unicità del carattere.
Enzo Sabatini è nato a Civita D’Antino (Aq) nel 1933. Pittore e incisore è stato critico d’arte di Momento Sera. Le sue prime esperienze artistiche risalgono al 1950 con la partecipazione alle prime mostre del Premio Nazionale Arti Figurative di Avezzano. In quel periodo pieno di fermenti innovativi frequenta alcuni protagonisti della pittura romana: Montanarini, Vangelli, Monachesi, Guzzi, Purificato, Omiccioli. Nelle opere che seguono quel periodo il processo di trasformazione dalla figurazione all’astratto si fa decisamente marcato. Una poetica pittorica che lo conduce ad un personale indirizzo formale che ne fa una delle figure più significative dell’astrattismo italiano del secondo Novecento.
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2020-03-19 12:30:01
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