Credo di avere, nei confronti di Manlio Sarra, un debito antico. Nel mio incedere di osservatore appassionato – talvolta stanco e appartato, ovvero fervido e lieto, comunque serenamente generoso – quella di Manlio Sarra è una delle poche figure alla quale non ho rivolto, finora, la dovuta attenzione. Non già per rovinosa dimenticanza, bensì per quella sorta di periodico rinvio che sembra assecondare più profonde – e mature – riflessioni.
Come se il tempo ampliasse la conoscenza restituendo al ricordo valenze corpose e sanguigne o ci concedesse un viaggio meno precario e ricco di approdi. Non amo le citazioni, in generale. Eppure mi piace partire da quel breve “appunto” che dedicai a Sarra nel 1997 quando, l’illusione per la nascita di un polo museale che avesse un’identità – e una memoria – marcatamente territoriale, mi spinse a ricostruire la storia artistica e culturale novecentesca di questa regione. “…quasi parallela, per temporalità e contributi, è la presenza di Manlio Sarra che, pur in un ruolo subalterno rispetto alla preminente figura di Purificato, mantiene viva, con il suo personale divisionismo cromatico, una tradizione fatta di agore solari, di folle sopite, di comunicanze rumorose…”.
Manlio Sarra, nato nel 1909 (e scomparso a Roma nel 1986), appartiene a quella schiera – per niente minoritaria – di artisti ciociari che hanno trovato la loro identità espressiva lontano dalla propria terra. Una sorta di “emigrazione sognante” che ha comunque prodotto, nell’ultimo secolo, una serie di “salutari contaminazioni” sul piano delle fenomenologie linguistiche e poetiche.
Dal futurista Ciacelli ai fratelli Bragaglia, da Umberto Mastroianni a Giovanni Colacicchi, il distacco – fisico, doloroso, necessario, nostalgico, emozionale – dalla propria appartenenza è stato, forse, il momento centrale ed epico per una nuova formulazione espressiva; per comprendere e assorbire un presente dilatato e inedito; per modificarne i tracciati ipotetici; per attribuire alla memoria componenti e stimoli fino allora sconosciuti; per “ritornare”, poi, a leggere o a vivere il luogo attraverso una nuova prospettiva.
Anche Sarra non rinuncia a questa sorta di esperienza addizionale, di avventurosa ouverture lungo i camminamenti di un linguaggio, quello novecentesco, ricco di fughe e incroci, di repentini ripensamenti, di soste cruente, di magiche risonanze.
C’era in Sarra, probabilmente, una predisposizione genetica per l’arte. Suo padre, pittore anch’egli, lo aveva indirizzato a quel “mestiere” col suggerimento alimentato dall’odore acre e corposo dell’olio e della biacca; dal suono intimo che fa la canapa intessuta sul telaio tirato; dalle percezioni paesaggistiche avvertite – o maturate – nella spazialità composta di uno studio d’artista. Un esordio, dunque, alimentato da una memoria ancora viva, palpitante, compagna; quella per il padre.
A venti anni l’uomo raccoglie i vetri spessi del caleidoscopio e li dispone a suo piacimento smontando e ricomponendo velocemente il sogno e il dubbio, l’illusione e la certezza sospesa. Il caleidoscopio dell’artista è dilatato per spasimi di colore e convulsioni del segno; penetra e assorbe luminosità celate, trasparenze forse soltanto immaginate.
Ha venti anni Manlio Sarra quando si trasferisce a Roma. E l’occhio vivido del pittor giovane annota ogni minima e sensuale vibrazione. E hanno la sua età – e i suoi sogni – Luigi Montanarini, Orfeo Tamburi, Pericle Fazzini. Con loro vive l’intermezzo temporale tra le due guerre: i dolori appena leniti, la poesia che consuma, nel presente, l’animo giovanile, l’evanescente smarrimento per presagi d’ombra. E’ un realismo determinato il suo, che poco concede a periferici riflessi o a vellutati sillabari. Finanche il pennello – o il gesto – dispone l’ocre e le profondità del cadmio seguendo tracciati ampi e concentrati o per sovrapposizioni grasse di scie.
La sua presenza nella cosiddetta Scuola Romana è un atto quasi naturale perché quei “granulosi racconti” sembrano appartenere, di fatto, alla sua indole, alla sua storia, al proprio respiro. La “romanità” è un umor plenus fatto di voci materiche, di ombre terrose e cieli di confine. E occhi che segnano le ore della città o la temporalità fumosa delle nuove periferie.
Il presagio giovanile è una guerra che ridisegna il mondo; che vede i padri seppellire i figli senza il conforto della resurrezione; che ha generato un odio gelatinoso, penetrante, eruttivo. Il “ritorno” porta con sé la precarietà di una poesia convulsa, definitivamente orfana di isole rassicuranti. Ma c’è nell’uomo (forse) la capacità millenaria di ri-nascere.
E nell’artista, di farlo misurando il presente con lo specchio inesauribile della memoria. Ovvero di ritrovare in essa le parole- il suono- il colore che determineranno le ipotesi a venire. Per sommatoria di indizi riaffioranti, per contaminazioni e dubbi.
La rivincita della vita, seppur precaria, dolorosa, sofferente, impone a Sarra – alla sua generazione, agli uomini – una nuova “pratica”, linguistica e interpretativa. Il deicidio appena consumato, ha forse interrotto l’evoluzione sistematica e rassicurante di una sequenza: sociale, culturale, artistica, umorale. E’ tempo di riepiloghi e bilanci, di nuovi termini di misura. Sarra lo fa restituendo al passato – e quindi alla sua memoria – una sorta di valenza dialogante; egli ammette al “banchetto della contemporaneità” ogni traccia o rappresentazione trascorsa.
Come ad impossessarsi della sua storia remota per restituirla poi gravida di tutte le contaminazioni, i soprusi, i dubbi, il silenzio. Egli narra il presente concentrando sulla tela i riti e i volti dell’adolescenza, le misture di voci feconde, la teatralità popolana del colore e del gesto. La sua natura, la sua intima “appartenenza”, riaffiora allora in una pittura rigenerativa, scomposta, luminosa. L’astrattismo della maturità non è un salvacondotto ma la competenza – o l’intelligenza – di leggere la vicenda dell’uomo con l’occhio – e il senso – della temporalità vigente. I grandi “mercati” o le ricche “feste” popolari riaffiorano per geometrie inedite, per cromatismi rivisitati.
Singolare, stridente, generosamente anticonformista è la sua modernità. Nel secolo delle repentine alterazioni (formali e linguistiche) Sarra partecipa alla XXVIII Biennale di Venezia con uno straordinario “Paesaggio ciociaro”. Un gesto generoso, indipendente, intimo. Profondamente moderno.
Manlio Sarra nato a Monte San Giovanni Campano (Fr) nel 1909 e scomparso a Roma nel 1986 fu esponente di spicco della pittura italiana novecentesca. Le sue opere sono presenti nelle più importanti collezioni, gallerie e sedi museali, fra le quali la “Galleria d'Arte Moderna di Roma”, e la “Galleria Nazionale del Comune di Roma”. Su Manlio Sarra sono state recensiti numerosi cataloghi d'arte, sia per le personali che per le varie rassegne allestite in Italia e all'estero, inoltre sono state pubblicate due monografie Antologiche: La prima nel 1966 “Manlio Sarra” con la presentazione di Vittorio Del Gaizo, la seconda monografia “Manlio Sarra – Ritorno alle origini” nel 1985. Nello stesso anno gli è stato conferito in Campidoglio (Roma) il premio “Maggio Romano” alla carriera.
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2020-05-13 09:10:25
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