Respiro è una parola bellissima. E’ un termine che richiama alla vita, a quell’atto fisiologico involontario che mantiene in esistenza tutti gli esseri viventi, uomini, animali, piante.
Nell’antichissima disciplina dello yoga, l’atto del respiro acquista centralità, diventa fondamento di tutta la pratica: si inspira immettendo nuova energia nell’organismo, si espira espellendo tutto ciò che di tossico può nuocere all’organismo.
Respiro è altresì un termine che richiama la grandezza dell’universo, nella sua veste di grande culla del mondo conosciuto e anche di quello sconosciuto.
Nella sua accezione immateriale, il respiro rappresenta la portata di un fenomeno, di un gesto, di un discorso.
Respiro è una parola che, purtroppo, in questi ultimi giorni stiamo ripetutamente ascoltando nella cornice dell’ennesimo atto di sopruso e di brutalità di un uomo verso un altro uomo. Un uomo bianco che ammazza deliberatamente, sfruttando la propria supremazia di ruolo, un uomo nero. Bianco e nero. E’ in questi due aggettivi che si sostanzia la brutalizzazione e la soppressione di un termine umanamente bellissimo come “respiro”.
George Floyd ha più volte ripetuto, con un filo di voce, “Non respiro” al poliziotto bianco che gli premeva un ginocchio sul collo, nonostante l’uomo afroamericano fosse ammanettato e a terra. “Non respiro” significa “Sto per morire, mi stai ammazzando”. Ma l’uomo bianco, con la sua divisa immacolata di guardiano della legge, quelle parole non le ha ascoltate, perché in quel momento l’unica voce che ascoltava era quella della sua mentalità razzista che gli ordinava di poter finalmente schiacciare uno sporco negro. Uno sporco negro reo solo di essere nero di pelle.
George Floyd lo sappiamo tutti, è morto. Il poliziotto è stato dapprima licenziato e solo dopo diversi giorni arrestato con l’accusa, al momento, di omicidio involontario. E l’America ora brucia. Quel fuoco, quella rabbia, quella fame di vendetta che attraversa la più grande democrazia occidentale, vuole lavare lo scempio, vuole gridare al mondo che le razze non esistono, che bianco e nero sono solo colori, e che l’unica razza che esiste è quella umana.
Ma la più grande democrazia occidentale (fino a quando continueremo a chiamarla così nonostante tutto quello che storicamente ha fatto e fa al resto del mondo, fuori e dentro casa sua?) ci ha fatalmente abituati a scene come quella che si è consumata qualche giorno fa a Minneapolis.
Negli ultimi trent’anni sono decine gli episodi di violenza, sfociati in omicidi da parte di poliziotti bianchi nei confronti di cittadini afroamericani, il più delle volte non colpevoli di alcun reato e solo in alcuni casi colpevoli di reati minori.
Quello che non bisogna avere paura di dire è che gli Stati Uniti d’America sono un paese profondamente razzista, dove la classe bianca mal digerisce la convivenza con i neri, con gli ispanici, con tutte quelle minoranze (che poi tanto minoranze non sono più) di cui si compone il suo puzzle sociale. Il mondo progressista, aperto alle minoranze, alla diversità, alla civile e pacifica convivenza, desideroso di una società veramente basata sull’uguaglianza, aveva sperato in un cambio di passo negli anni della presidenza Obama.
Ma lo zoccolo duro di quella middle class bianca, puritana, conservatrice di cui si compone la società americana, ci dimostra ripetutamente che quel Paese non è un paese per neri, per ispanici, per disabili, per poveri, per diseredati. L’opulenta America ancora una volta si ritrova a fare i conti con i fantasmi di una schiavitù abolita, sulla carta, solo nel 1865. All’abolizione della piaga schiavista, purtroppo non ha fatto seguito una reale educazione alla convivenza, all’eguaglianza, alla pari dignità sociale di americani di pelle bianca e di pelle nera, al rispetto dell’altro per quello che è. Episodi di razzismo si ripetono frequentemente, nelle scuole, nei locali pubblici, per strada. Non è un caso che gli afroamericani, insieme agli ispanici, appartengono spesso alle classi più povere e disagiate del contesto sociale americano. Le opportunità di studio, lavoro, carriera, sono notevolmente differenti per gli appartenenti al WASP (White Anglo Saxon Protestant) e per gli afroamericani. Certamente con le dovute eccezioni, e il Presidente Obama, per fortuna di tutti, ne è stato un degno esempio.
Ma gli avvenimenti come quello che ha visto coinvolto il poliziotto di Minneapolis che ha ucciso George Floyd ci dicono che gli otto anni della presidenza Obama non hanno intaccato quello zoccolo duro di razzismo e bieco conservatorismo che oggi viene combattuto nelle strade di tutte le città americane, da parte di tutti quei cittadini, per fortuna non solo neri, che credono in un mondo più giusto, più egualitario, dove i diritti umani vengono difesi e salvaguardati, dove il colore della pelle non diventa automaticamente una colpa da punire, dove quel respiro che ci unisce come umanità non venga soppresso solo perché esala da un corpo la cui pelle ha un colore diverso dal nostro.
L’umanità deve imparare a respirare all’unisono, come un unico corpo, su questo pianeta che è la nostra unica casa. Ma la strada, purtroppo, appare ancora molto lunga e lastricata di dolore e sofferenza.
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2020-06-01 12:47:36
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