Quando si parla di occupazione si può fare riferimento a diversi significati. Nella sua accezione positiva occupazione è sinonimo di lavoro o svolgimento di una attività, quindi di una condizione che, secondo le convinzioni sociali proprie del mondo moderno, nobilita l’essere umano.
Al contrario, nella sua accezione negativa, occupazione diventa sinonimo di una azione mirata a prendere possesso di un luogo o di un bene, con mezzi legali o illegali. L’ambito che a noi interessa è quello della presa di possesso di un luogo con mezzi illegali. C’è un luogo che potremmo definire il luogo per antonomasia vittima di occupazione illegale.
È la Palestina, una terra che dal 1948 vive una progressiva occupazione da parte dello stato di Israele.
Il nome Palestina venne utilizzato per la prima volta nel V secolo A.C. per identificare l’area estesa fra la Fenicia e l’Egitto. Nel corso della storia i confini di questa area hanno subito numerose modificazioni che, per arrivare alla storia contemporanea, si sono estrinsecate nella divisione del territorio palestinese in zone di influenza fra la Gran Bretagna e la Francia alla fine della prima guerra mondiale, disegnate sulla base dell’accordo Sykes-Picot del 1916.
Ma fu nel 1947 che ci fu la vera svolta nell’assetto geopolitico della Palestina, quando l’ONU decretò la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo.
Una decisione, quella delle Nazioni Unite, che suscitò una ondata di proteste da parte delle comunità arabe, che rifiutavano la cessione del loro territorio al neonato stato ebraico, denominato successivamente Israele. Le proteste sfociarono in una guerra civile che costò la vita a molti civili, su entrambi i fronti, ma soprattutto produsse quella che gli arabi hanno chiamato nakba, cioè catastrofe o disastro. La nakba altro non fu che l’esodo delle masse palestinesi che fuggivano dalla furia israeliana. Alcuni fuggirono spontaneamente, altri furono costretti con la forza a lasciare il Paese. Oltre settecentomila palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case, i loro villaggi, in pratica la loro intera vita. E non fu loro permesso fare ritorno al termine del conflitto. Gli enormi e numerosi campi profughi nel vicino Libano sono lì a testimoniare il perdurare di questo esilio forzato.
Un conflitto, quello tra Palestina e Israele, che di fatto non è mai terminato, che ha vissuto momenti di maggiore intensità, come per esempio nella guerra dei sei giorni del 1967, alternati a momenti di fragile tregua. Di fatto le due anime che popolano il territorio che un tempo era Palestina, continuano a fronteggiarsi, con una sproporzione di mezzi che mette gli arabi palestinesi in una condizione di inferiorità rispetto agli israeliani.
È solo nel 2014 che la Palestina ottiene il primo riconoscimento internazionale come Stato sovrano da parte della Svezia.
L’occupazione da parte di Israele di pezzi di territorio storicamente abitati dagli arabi palestinesi, ha comportato e comporta enormi disagi per la popolazione palestinese, costretta a subire estenuanti controlli ai numerosi checkpoint dislocati in tutto il paese, che di fatto ne limitano in maniera significativa la libertà di movimento, ad essere considerati in tutto e per tutto cittadini di serie “b” rispetto agli israeliani. Tutto questo produce, come è ovvio che sia, rigurgiti di nazionalismo e rivendicazioni di una vita più dignitosa e libera, che sfocia frequentemente in micro rivolte, duramente represse dai militari israeliani.
Il processo, costante e graduale, di occupazione del suolo palestinese da parte di Israele non si è mai fermato e oggi i confini della Palestina risultano ridotti a una manciata di territori. Proprio alcune settimane fa doveva compiersi l’ennesima “annessione” di alcune aree della Cisgiordania da parte di Israele.
Tuttavia, questo nuovo atto di aggressione verso il popolo palestinese, ha incontrato l’opposizione di una parte dei giovani israeliani che in una lettera aperta al primo ministro Netanyahu scrivono “Questa mossa darà luogo senza dubbio di nuovo a violenti scontri nella nostra regione, le cui vittime saranno sia palestinesi che israeliane. Significa intensificare il conflitto, mantenere il ciclo del sangue e della morte, il tutto mentre si radicano l’occupazione, la violenza e il razzismo“.
È sicuramente di buon auspicio se le giovani generazioni israeliane prendono coscienza del fatto che ulteriori passi in avanti da parte di Israele verso l’occupazione non faranno altro che generare altra violenza, altro odio, altri conflitti. Se questa consapevolezza riuscisse a crescere, a trovare spazi maggiori e a divenire opinione dominante nel popolo israeliano, forse il futuro potrebbe aprirsi a percorsi di pace, allontanando lo spettro di un conflitto mai cessato e consentendo ai palestinesi di vivere con dignità sulla loro terra.
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2020-07-18 16:45:35
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