Abbiamo iniziato, l’altro giorno, una conversazione con Lorenzo Diana. Già Senatore della Repubblica italiana e componente della commissione Antimafia, impegnato da una vita a lottare contro il crimine organizzato. Per il suo impegno, civile e politico, è stato condannato a morte dal sanguinario e schifoso clan dei casalesi. Nel 2015 ha conosciuto e toccato con mano, mentre era alla guida del Centro Agroalimentare di Napoli, l’altra faccia dello Stato. Quella cieca, sorda, che rappresenta una giustizia malandata. «Da riformare» ripete con convinzione Diana.
Due avvisi di garanzia, l’allontanamento dal proprio territorio, l’interdizione dai pubblici uffici. Accuse gravi, tra cui un concorso esterno per associazione camorristica.
Un lungo calvario, durato quasi sei anni, per chi ha gettato il proprio corpo nella lotta. Nel Paese impregnato dalle secolari mafie il “garantismo” (parola inutile, insieme a “giustizialismo”) viene continuamente applicato a corrente alternata. Nel suo caso, non come in altri, quegli avvisi sono stati trasformati in condanne. E il nuovo mostro (quanti ne sono stati creati in questo Paese orribilmente sporco?) viene sbattuto in prima pagina.
Da martello (contro il clan) diventa incudine (accusato di aver favorito i camorristi che ha denunciato nel corso della sua vita).
Nel maggio 2019, la Procura chiede la prima archiviazione. Svanisce la prima accusa. L’incubo è finito il mese scorso. Anche l’altra accusa, la più infamante (aver agevolato la camorra), è caduta nel vuoto, miseramente. Lorenzo Diana, secondo i magistrati, non ha mai commesso quei reati contestati. Però è stato definito, nella fase preliminare delle indagini, “personalità doppiamente trasgressiva”, “persona senza remore a commettere reati”, “solo formalmente incensurato”. È questa una giustizia giusta?
Nel Paese, storicamente governato da politici corrotti, collusi e mafiosi, l’ex Senatore ha dovuto subire, «per mesi e mesi», la gogna mediatica. Mentre per altri (ancora sulla scena politica nazionale e regionale) la fedina penale sporca continua a fare curriculum.
In questa seconda parte riprendiamo il dialogo con l’ex segretario della commissione Antimafia. Abbiamo diviso l’intervista in più parti per dare la possibilità a Diana di raccontare il suo punto di vista, senza «omettere» nulla.
Servivano le misure che le sono state comminate?
«Il divieto di dimora è durato appena 19 giorni. Mi fu comminato il 3 luglio e dopo 19 giorni lo stesso Gip, senza che noi andassimo a riesame, ritira quel provvedimento. La sensazione è che siano servite solo a dare il clamore della notizia dell’allontanamento. L’interdizione dai pubblici uffici, che era per un anno, appena arrivammo a presentare i ricorsi, fu annullata dallo stesso Tribunale. Quindi due misure cadute immediatamente. E sono stato allontanato dalla presidenza del Centro Agroalimentare. Ero stato chiamato dal sindaco di Napoli.»
Lei ha condiviso la scelta del sindaco De Magistris?
«Penso sia stato un atto affrettato.»
Perché?
«Eravamo di fronte a un avviso di garanzia, si potevano leggere le carte e capire. Il mercato è andato avanti per alcuni mesi con me, legittimo presidente, però si riuniva senza di me. Penso che si poteva meglio ponderare, però capisco che l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa creasse qualche problema.»
Il sindaco di Napoli come ha comunicato la sua decisione?
«Lo appresi dalla stampa. Per mio costume e scelta, in questi cinque anni e mezzo, ho dato battaglia per difendere la mia onorabilità, forte della convinzione che non poteva non finire così.»
Ritorniamo alla magistratura…
«Penso che nella magistratura ci sia da riflettere. Su questa commistione, di convinzione da tribunale morale, che diventa una convinzione autoritaria. Una cultura autoritaria congiunta al carrierismo, cercato con il clamore delle indagini. Questa inchiesta che mi riguardò fu sparata con un clamore senza precedenti per diversi mesi e alla fine si è rivelata un nulla. Meritavo tanto clamore? La stessa mattina della notifica degli avvisi non parte un percorso giudiziario, ma un processo mediatico che si sostituisce del tutto a quello giudiziario. Penso che sia necessario affrontare il problema anche dei processi mediatici.»
Perché?
«Ho la sensazione che alcuni pubblici ministeri quasi non credano loro stessi nell’indagine, nel percorso giudiziario previsto dalla legge. E come se sapessero che è difficile arrivare ad un processo e a una sentenza. Per cui alla fine viene anticipata la pena con una gogna mediatica.»
Quello che è successo a lei?
«Sono stato sottoposto ad una pena da cittadino innocente, nel corso delle indagini preliminari. Già lo stesso giorno finii sui telegiornali nazionali come il mostro. Questo non mi è stato più ripagato.»
Come si ripaga una cosa del genere?
«Con la riforma della giustizia, per eliminare alcune aberrazioni di una giustizia che funziona.»
Possiamo entrare nel merito?
«Le gogne mediatiche sono assurde, soprattutto, se precedenti ad una sentenza. A parte il fatto che c’è un principio costituzionale che garantisce la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva. Ma, per lo meno, fino alla sentenza di primo grado.»
Questo esiste sulla carta?
«Di fatto non c’è. Quindi una riforma deve, a mio parere, rimuovere le gogne mediatiche che diventano negazione dello Stato di diritto, del principio di giustizia e del principio di presunzione di innocenza. Dall’altra parte, bisogna affrontare i tempi della giustizia. Una giustizia così lenta, che ci impiega cinque anni e mezzo solo per archiviare un’indagine. E se fosse andata a processo quanti altri anni sarei stato sotto la gogna mediatica? Ma una giustizia così lenta, che non colpisce adeguatamente i colpevoli e crea problemi anche al cittadino innocente, non funziona. E se fossi stato un imprenditore? Ora mi si riconosce la mia innocenza. Ma la mia impresa sarebbe andata in fallimento. Questo è accaduto anche con il Centro AgroAlimentare.»
Cosa è accaduto?
«Quando arrivai aveva una perdita di cinque milioni di euro all’anno. In due anni lo portai in attivo, recuperai 140 lavoratori che erano stati licenziati prima. Ma sicuramente non è stato indolore il mio allontanamento. Dobbiamo riflettere sulla devastazione di atti e di questo uso abnorme delle misure già nel corso delle indagini preliminari, quando non ci sono elementi per valutare. E oggi posso dirlo con forza, perché non sono io a dichiararlo ma sono gli stessi magistrati che hanno iniziato il tutto. Non dobbiamo attendere più ad affrontare i temi della giustizia. Aggiungiamo le degenerazioni del correntismo, il tema del carrierismo denunciato dentro il CSM ma, soprattutto, nell’ANM. Da anni c’è un dibattito su questo. Queste questioni stanno creando seri problemi nella magistratura. L’indagine non diventa importante perché si fa clamore, l’indagine diventa importante se raggiunge il proprio scopo. Un problema che riguarda la giustizia, il parlamento e la stampa. C’è un corto-circuito che, ormai, tocca milioni di italiani. Bisogna riformare la giustizia. Nessuno più deve subire un trattamento simile al mio.»
Non ha insegnato nulla la vicenda di Enzo Tortora?
«Ci sembrava tanto lontana questa vicenda. Ma temo che sia molto attuale e presente. Ha insegnato molto poco. Il CMS, insieme al legislatore, dovrebbe riflettere su una cosa: gli indici di fiducia della magistratura, da molti anni, sono in netto crollo. Sono molti gli italiani che si vedono sbattuti come mostri, con un avviso di garanzia e una misura cautelare, e poi ignorati nel momento in cui vengono scagionati, prosciolti o assolti. Ho dovuto scrivere ad alcuni media per chiedere che mi sia ripristinata l’immagine. Televisioni e alcuni giornali avevano realizzato servizi e scritto articoli su di me, ma non hanno scritto un rigo, un trafiletto quando sono stato totalmente scagionato da qualsiasi accusa. Questo non è da Stato di diritto ed è un problema che si pone.»
Serve una giustizia diversa?
«Senza una giustizia moderna, veloce, efficiente, efficace il Paese non andrà da nessuna parte. Oggi subiamo il peso di una giustizia che non è più tale. Ho dato la mia vita a sostegno della giustizia e lo rifarei completamente.»
In questi anni si è sentito solo?
«Le mie battaglie, la mia presenza nel tempo lungo mi ha fatto dono di migliaia di persone che si sono fatte sentire vicine, sin dal primo giorno delle indagini. Però devo anche constatare che molte persone hanno scelto la strada dell’allontanamento, dell’attendismo. Perché c’è una mitizzazione acritica dell’intera magistratura. E così non può essere. Persino nel mondo dell’associazionismo antimafia ho dovuto registrare tante prese di posizione. Alcune associazioni, come Articolo21 e il Premio Borsellino, non mi hanno mai fatto mancare la solidarietà. Mi hanno voluto sempre presente alle loro iniziative. Lo hanno dichiarato in tutti modi. Ho avuto sostegni inaspettati di più personalità, come il professore Giovanni Verde, già vice presidente del CSM che fece un editoriale stupendo a mia difesa, criticando certa giustizia. Molti magistrati si sono dichiarati a mio favore, come Cantone, Ardituro e diverse altre persone. Devo però dire che pezzi dell’associazionismo hanno taciuto. Ho registrato dei silenzi che fanno rumore.»
Il sindaco De Magistris l’ha chiamata?
«Mi ha mandato un messaggio. Ho avuta tanta vicinanza e solidarietà ma anche tanti silenzi, abbandoni, allontanamenti che erano del tutto ingiustificati. Qualcuno ha dichiarato “forse dovevamo capire meglio”. Ma non ho capito cosa avessero da capire. Ci sono troppe persone che hanno una mitizzazione della magistratura e c’è un’antimafia molto retorica, molto formale. Mi ritengo una persona che ha combattuto la camorra sul campo. Non da lontano, non fuori dal regno dei camorristi ma dentro il loro regno, senza risparmio, senza presunzione. Con un principio che penso di aver contribuito ad affermare: tenere assieme l’impegno sociale e politico, l’impegno istituzionale, la collaborazione con lo Stato, la magistratura e le forze di polizia. Quella collaborazione mi ha portato a dialogare persino con capi della polizia, con prefetti, con magistrati, con procuratori e, persino, con Presidenti della Repubblica.»
Chi sono i Presidenti della Repubblica?
«Ho avuto due atti di forte attenzione da parte di più Presidenti della Repubblica, fra questi voglio ricordare Ciampi che nel 2003, il giorno del suo compleanno, venne in visita nel mio Comune nativo, San Cipriano d’Aversa, che non ha mai visto nella sua storia l’ombra di un Presidente della Repubblica. Venne in quel Comune e diede un segnale forte di vicinanza e sostegno alla nostra lotta di Liberazione della camorra. Come anche il presidente Napolitano, durante i mesi di mattanza da parte del killer Setola, che non esitò a ricevermi immediatamente, nel giro di quattro giorni, dalla mia richiesta per discutere di cosa potesse essere fatto per fermare quel pericolo che circolava per la nostra terra. Sono cresciuto in questa sinergia che mi ha caratterizzato. Per queste ragioni mi ha fatto male vedere, da una parte, questa azione non troppo attenta da parte di pezzi di Stato ma, dall’altra parte, sempre con maggior fastidio quel pezzo di antimafia retorica che non si misura mai sul campo, che diventa esclusivamente parolaia. Talvolta c’è la tendenza a volersi confondere come punta di diamante. Questo non aiuta l’antimafia.»
Come deve essere l’antimafia?
«Efficace, silenziosa, capace di costruire e non ripetere concetti come litanie poco credibili. Ho sentito molte litanie in convegni e nelle scuole di cui coloro che ascoltano farebbero facilmente a meno. L’antimafia più credibile è quella che parla con i fatti e con impegni non rumorosi.»
Lei viene accusato da Antonio Iovine, già boss dei casalesi, oggi collaboratore di giustizia. Oltre ad una riforma della giustizia bisognerebbe pensare anche ad una riforma dei collaboratori di giustizia?
…
Seconda parte/continua
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2021-01-16 18:36:04
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