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Il Paese vigliacco che omaggia e s’inchina al Paese sporco

by Alessio Di Florio
14 Aprile 2021
in Mafie
Reading Time: 6 mins read
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«La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» disse Paolo Borsellino. Il movimento culturale non cade dal cielo e non nasce da solo, il puzzo del compromesso, dell’indifferenza, della contiguità e della complicità non è figlio – come si scriveva una volta nelle anagrafi comunali – di NN. Hanno facce, volti, braccia, gambe e voci precise, definite, di persone che decidono ogni giorno cosa fare o cosa non fare.

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È passato oltre un mese dalla morte di Raffaele Cutolo, il boss fondatore della Nuova Camorra Organizzata, quintessenza del potere criminale e di come pezzi dello Stato da sempre sono fedeli solo all’anti Stato. In quella tomba sono stati seppelliti ingiustizie, lacrime, dolori, dignità di troppi personaggi – che hanno segnato e continuano a segnare – la storia d’Italia. La giustizia negata di fronte alle cricche, alle squallide consorterie, al potere politico ed istituzionale che ha tradito svendendo territori, economie, appalti e tanto altro al ras della camorra, all’avanzata della camorra dopo il terremoto in Irpinia permessa da una classe politica connivente e complice.

Ancora oggi l’autista di Cutolo siede sui banchi del Parlamento italiano, propone e vota leggi, sostiene governi e con essi tratta quotidianamente. Il Paese sporco e marcio che Cutolo lascia è quello dove chiunque, anche il peggiore del peggiore, è considerato legittimato ad entrare nei palazzi, a candidarsi ed essere attivo in politica. Chi lotta contro mafie e camorre, chi ogni giorno rischia la vita da decenni no. Dove, come abbiamo visto anche con le scarcerazioni e la pessima gestione dell’Amministrazione Penitenziaria l’anno scorso, sono in servizio permanente le vestali e le prefiche dei «diritti umani» solo per potenti e criminali d’alto rango. Spesso sono solo presunti, altri totalmente inventati, frasi e parole sempre impastate con menzogne, sotterfugi e verità di comodo. E alla fine titoli a nove colonne vengono sparate per paragonare il 41bis a Guantanamo (e perché non direttamente lager e gulag?!), per pretendere che i colletti bianchi, il padrone del proprio quotidiano, l’imprenditore, il vip e il grande boss devono sempre essere liberi ed impuniti. Poi, come sta accadendo dalla Campania all’Abruzzo, scoppiano focolai drammatici nelle carceri, persone senza santi in paradiso si ammalano e sopravvivono in condizioni al limite dell’umano e tutti zitti e muti.

Dopo la morte di Cutolo abbiamo subito uno spettacolo indegno e vergognoso: la santificazione e glorificazione di un boss, la trasformazione del marcio più marcio in virtù. Cutolo è stato colui che ha ideato, teorizzato e realizzato il grande salto della camorra, che ha imbastito alleanze con altre organizzazioni criminali e ha definitivamente creato e consolidato  la camorra come potere. È colui che fino all’ultimo è rimasto fedele solo e soltanto alla sua organizzazione, ai gangli della struttura criminale che insanguina, avvelena, deruba il bene pubblico e i più impoveriti, che ha ammazzato e ammazza quotidianamente. Eppure si son sprecati, dai social ad alcuni quotidiani, coloro che lo hanno santificato, che gli hanno riconosciuto l’onore di un vero uomo. Si chiama omertà, si chiama ingiustizia, non c’è nulla di virtuoso. E non sono dei cattivi manettari a giudicarlo, è la Storia, è la sua stessa vita a giudicarlo. L’ipocrisia di queste frasi fatte, alla «sarà solo Dio a giudicarlo, era un uomo che va rispettato» e cazzate simili, si svela plasticamente quando vediamo gli stessi che la pronunciano giudicare una donna vittima di stupro per i centimetri degli abiti o per gli orari, in cui basta un pigmento epidermico, l’impoverimento o scelte personali legittime e normali per scatenare le canee più brutali che farebbero impallidire anche un redivivo Torquemada.

Due Papi, Giovanni Paolo II e l’attuale Francesco, sono stati chiarissimi nei confronti delle mafie: il giudizio divino è implacabile e i loro affiliati sono scomunicati. Eppure –  nella terra che da decenni accoglie mafie di ogni genere o le esporta a partire da Casamonica, Di Silvio,  Spada e simili e che vergognosamente e schifosamente accolto e coccolato persino il figlio di totò u curtu (oltre a far venire la moglie del defunto boss per festeggiarne in pompa magna il compleanno) – abbiamo avuto un prete che si è vantato dell’amicizia con Cutolo e ha affermato di essere certo che ora è in Paradiso. La miglior risposta a queste sconcertanti affermazioni sono venute in occasione della recente Giornata della Memoria e dell'Impegno contro le mafie: il cardinal Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha definito le mafie «apostasie» che «calpestano lo stesso messaggio evangelico per fondare le loro identità», Papa Francesco le ha definite «strutture di peccato» che sono «contrarie al Vangelo di Cristo» e «scambiano la fede con l'idolatria».  

Non possiamo tacere su un’altra incredibile menzogna che è stata ripetuta in queste settimane, su cui non si può rimanere in silenzio e non intendiamo farlo: Don Raffaè non celebrava Cutolo e non lo glorificava, la canzone di Faber aveva ben altre intenzioni. Fabrizio De André raccontò in un’intervista che la canzone Don Raffaè è nata nel 1989. «La classe dirigente politica era intortata con quella economica», disse, «ed entrambe sembravano colluse con le organizzazioni criminali». Nella stessa intervista criticò ferocemente gli esponenti “politici di rilievo” che si rifiutavano di partecipare ad eventi insieme con il giudice Giancarlo Caselli. «Caselli è uno che da diversi lustri rischia la vita per difendere la nostra società dalla mafia: rischia la vita come Falcone e Borsellino: no, Caselli non va bene, almeno fino a quando non lo faranno fuori» le sue parole che riassumono decenni di ipocrisie e doppio gioco di tanti appartenenti alla classe politica, imprenditoriale e – purtroppo – anche giornalistica d’Italia. Mentre la democrazia diventa una lotta tra clan per il dominio, in mano a potentati e cerchie sempre più ristrette, un’oligarchia. «Una canzone disperata di persone che credevano di poter vivere almeno in una democrazia e si sono accorte che questa democrazia non esisteva più», trasformata in oligarchia, De André definì «La domenica delle Salme».

 

Davanti l’ipocrisia, la vigliaccheria e la schifosa complicità del Paese sporco ricordiamo le vittime della camorra, come ha dichiarato immediatamente dopo la morte di Cutolo il pm anti-camorra Catello Maresca. Migliaia e migliaia tra cui una bambina, Simonetta Lambertini. La prima, sconosciuta ai più, fu Mario Viscito. Il suo barbaro omicidio, il primo della carriera criminale di Cutolo, svela la vera essenza del boss oggi defunto. Era il 24 febbraio 1963, Cutolo aveva appena investito sulle strisce pedonali una bambina di dodici anni.  La bambina reagisce inveendo contro Cutolo che scende dall’auto e la schiaffeggia. Alcuni passanti reagiscono alla violenta prepotenza e Cutolo cerca di picchiare alcuni degli intervenuti. Sfodera una pistola e ne scarica tutti i colpi contro Mario Viscito, uno dei passanti intervenuti, ammazzandolo brutalmente. Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale, fu assassinato per aver perquisito personalmente Cutolo in carcere dopo che diversi agenti si erano tirati indietro. Marcello Torre e Pasquale Cappuccio furono assassinati perché nel loro impegno politico e amministrativo non hanno ceduto alle collusioni della politica con la camorra. 

 

WORDNEWS.IT © Riproduzione vietata

 

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Alessio Di Florio

Vicedirettore WordNews.it - È nato ad Atessa (Chieti), nel 1984. Attivista e volontario di varie associazioni e movimenti culturali, ambientalisti, pacifisti e di lotta alle mafie. Collaboratore della redazione abruzzese di Pressenza e di TeleJato.it. Ha collaborato con Adista, Primadanoi, Terre di Frontiera, Unimondo, Libera Informazione, Popoff Quotidiano e SocialPress. Ha curato, per oltre dieci anni, il sito personale del giornalista e regista RAI Stefano Mencherini, dove è stata curata la diffusione e la pubblicizzazione del documentario d’inchiesta «Schiavi. Le rotte di nuove forme di sfruttamento», con il quale è stata portata avanti la “Campagna di sensibilizzazione per l’informazione sociale”, in collaborazione con MeltingPot e Articolo21, e per la creazione di un Laboratorio permanente di inchiesta e documentari sociali in RAI, nata per rompere la censura televisiva del documentario d’inchiesta “Mare Nostrum”. Articoli su tematiche sociali e culturali sono stati pubblicati dal mensile Vasto Domani. Per contatti: redazione@wordnews.it

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