9 marzo 1973, a Milano Franca Rame viene rapita, costretta a salire su un camioncino e stuprata per ore da cinque uomini. Due anni dopo racconterà l’orrendo crimine nel monologo «Lo stupro».
Quattro anni dopo sei giovani registe realizzeranno il documentario «Processo per stupro» trasmesso dalla Rai il 26 aprile 1979. In prima serata vengono così documentate per la prima volta la rivittimizzazione e la colpevolizzazione delle vittime, e non dei carnefici, che si compie anche nelle aule di tribunale.
«La violenza c’è sempre stata – disse nella sua arringa l’avvocato Giorgio Zeppieri – E allora, Signor Presidente, che cosa abbiamo voluto? Che cosa avete voluto? La parità dei diritti. Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete voluto mettere i pantaloni? Avete cominciato con il dire ‘Abbiamo parità di diritto, perché io alle 9 di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?’ Vi siete messe voi in questa situazione. E allora ognuno purtroppo raccoglie i frutti che ha seminato. Se questa ragazza si fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».
Sono passati esattamente quarantadue anni, il mondo è cambiato e stravolto innumerevoli volte. Ma quanto denunciarono e documentarono le sei coraggiose registe è attuale, oltre sei lustri la società italiana è sempre ferma e piantata nello stesso identico copione sociale e mediatico. Anche in tribunale.
Il mese scorso la Corte Europea per i Diritti Umani ha condannato l’Italia per quanto avvenuto durante un processo per stupro, confermando nero su bianco la vergognosa situazione. I giudici europei si sono pronunciati sulla sentenza di assoluzione in appello di uno dei sette imputati di stupro durante una festa nella Fortezza da Basso a Firenze nel 2008.
«La Corte ritiene che i diritti e gli interessi della ricorrente derivanti dall’art. 8 non sono stati adeguatamente tutelati in considerazione del contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze – scrivono i giudici – Ne consegue che le autorità nazionali non hanno tutelato la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza è parte integrante».
«Era essenziale che le autorità giudiziarie evitassero di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni del tribunale, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne alla vittimizzazione secondaria facendo commenti che inducono ai sensi di colpa e dando giudizi che possono scoraggiare la fiducia della vittime nel sistema giudiziario» e «l’obbligo di proteggere le presunte vittime di violenza di genere imporrebbe anche il dovere di proteggere la loro immagine, dignità e vita privata, anche attraverso la non divulgazione di informazioni personali e dati estranei ai fatti».
Parole durissime che avrebbero dovuto suscitare dibattito, vergogna, indignazione. Invece così non è stato e questo deve far riflettere sulla realtà reale, e non da cartolina o celebrazione, che subiscono le donne vittime di violenze, molestie, abusi, femminicidi anche in vita, in questo Paese che sempre con maggiore difficoltà possiamo definire ancora nostro. L’8 marzo, le panchine e le scarpe rosse, le celebrazioni e gli aulici discorsi sono ormai lontani e si svelano nell’essenza dell’ipocrisia del patriarcato e dell’oppressione dei carnefici.
In questi mesi abbiamo pubblicato varie volte le denunce e le testimonianze di Ilaria Di Roberto. Scrittrice, attivista femminista radicale, artista, donna che ha sempre infranto e si è ribellata al copione dell’oppressione patriarcale nei confronti delle vittime di abusi. Che lei ha ripetutamente subito in una catena drammatica di tentativi di stupri, revenge porn, cyber bullismo, psicosette, violazioni ed insulti del suo nome e della sua persona.
Alle sue denunce, sui social e nel web così come nel suo paese, sono seguite catene di vittimizzazione secondaria e di «colpevolizzazione» contro di lei. Anche lì dove la giustizia e le leggi dovrebbero tutelare le vittime e punire i criminali. In questa videointervista testimonia tutto questo, racconta con coraggio e profonda umanità la sua vicenda, quel che ha subito e cosa ha incontrato sulla sua strada. Ribadendo, come abbiamo scritto varie volte, il suo rifiuto totale e sotto ogni aspetto della colpevolizzazione delle vittime, degli stereotipi sessisti condannati dalla CEDU e di un copione mediatico e sociale che è l’essenza brutale e complice dei carnefici in una società che continua ad essere vergognosamente patriarcale, maschilista e vigliacca.
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