«In quel momento storico, in piena strategia della tensione, i motivi per levare di mezzo uno come Pasolini, così lucido nell’analisi del gioco del potere, c’erano tutti»
«Siccome faccio parte di una generazione audiovisiva, Pasolini l’ho conosciuto prima dai film e poi dai libri», i film «spesso li ho trovati sgradevoli, non conoscevo i retroscena dell’epoca, la densità dello scontro, la necessità della rottura»
I borgatari di Pasolini non esistono più, «quelli di adesso sono già diversi da quelli degli Anni 90. Ora su tutto domina l’evasione, la voglia di pensare unicamente ai fatti propri, l’allontanamento dall’impegno politico. Solo negli stadi il livello di politicizzazione è aumentato, in seguito al forte proselitismo di destra».
Libero De Rienzo, intervista a La Stampa del 30 marzo 2016 sul film «La Macchinazione». Un film in cui recitò la parte di Antonio Pinna, legato alla Banda della Magliana e con «un ruolo fondamentale nell’esecuzione dell’omicidio», «al volante della seconda Alfa Gt sulla scena del delitto all’Idroscalo». Una scelta incosciente, come la definì lui stesso, per passione civile, vera e profonda. Pasolini è ancora oggi faro, profeta, vedetta e osservatore infuocato, appassionato, irriverente, dissacrante di ogni sancta sanctorum e vile imborghesimento. Di una società sempre più omologata, prona, appiattita, devastata ma sempre serva di padroni e padrini. Le analisi di Pier Paolo Pasolini, i suoi allarmi su un mondo che stava scomparendo e sul nuovo fascismo raccontano gli Anni Settanta, l’Italia di oggi e (fin quando esisterà) quella del futuro. Il proselitismo di destra negli stadi, a cui fa riferimento De Rienzo, è l’albero avvelenato dei frutti violenti, razzisti, fascisti, nazisti e mafiosi che abbiamo documentato e denunciato varie volte. E su cui la letteratura e i dossier sono sempre più ampi.
Il nome di Libero De Rienzo resterà per sempre legato a quello di Giancarlo Siani e alla sua interpretazione in Fortapasc. Il discorso agli studenti, la conversazione col suo caporedattore, il giornalismo come passione, la netta distinzione tra i giornalisti impiegati da riporto e i giornalisti giornalisti che cercano, documentano, approfondiscono, riportano nomi, cognomi, atti e fatti delle «rottur e cazz». Che non si spaventano delle notizie che «so rottur e cazz» e, anzi, vivono solo per portare alla luce quel che è nel buio, nell’illuminare le periferie oscure delle squallide consorterie, degli sfruttamenti e degli anfratti dei più schifosi sistemi criminali. Raccontandoli e denunciandoli senza indugio, senza fermarsi, coscienti del mondo in cui viviamo e incoscienti delle regole borghesi e mafiose dell’omertà e dell’accomodarsi, del doversi abituare – come grida sempre il Peppino Impastato de «I Cento Passi» – alle loro facce. Volti che vivono nelle nostre strade, nei nostri paesi, che tutti conosciamo e davanti a cui troppi si tolgono il cappello (davanti a lui ci scappelliamo tutti disse un boss in carcere a Vasto parlando del terzogenito di Totò u curtu). Mentre i nomi, i volti, le vite, degli sfruttati e delle sfruttate, degli schiavi e delle schiave delle peggiori mafie padronali borghesi restano sconosciute, le si allontanano come fossero cani immondi e si tace, si considera sconveniente o si sfoggiano pseudo fatalismi vigliacchi di fronte a quel che accade. Nell’Italia della pandemia sempre più il narcotraffico, dalle piazze ai salotti dell’alta borghesia, lo sfruttamento dello stupro a pagamento, il caporalato nei campi, nella logistica e in altri settori, l’elenco è immenso. Fortapasc è qui, Giancarlo Siani e le rottur e cazz bussano alle coscienze. Negli Anni Ottanta come nei primi Duemila, oggi e sempre.
«Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere giornalista è qualcosa di altro. È sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno». Giancarlo Siani
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