La storia di Lea, una donna, madre, una calabrese tenace nel trentennale delle stragi di mafia.
Quella mattina la mamma mi svegliò con calma, con un bacio caldo sulla fronte. Avevo dormito veramente poco, forse neanche un’ora. Avevo paura che venissero a prendere la mamma come hanno fatto con il papà qualche sera prima.
Avevamo appena finito di mangiare, quando vidi la mamma molto preoccupata, subito mi strinse tra le sue braccia. Dietro di me c’erano dei poliziotti che portarono via il papà; quando ero lì non vidi niente, ma sentii la mamma che ne parlava al telefono. Da quel giorno, tutte le volte che cercavo di chiudere gli occhi per dormire immaginavo quegli uomini che venivano a prendere la mamma e li riaprivo subito. Avevo paura, non potevo permettermi che portassero via anche lei, era l’unica che mi voleva bene.
Mi fece vestire in modo elegante, con il mio maglione “da grande”, come diceva lei.
Diceva che saremmo andate dal papà e che a lui avrebbe fatto piacere vedermi così.
Siamo uscite e siamo arrivate davanti a un cancellone; se non fosse stato per le finestre sbarrate sulla facciata, avrebbe potuto anche essere l’entrata di un castello. Come mi sarebbe piaciuto vivere in un castello, essere una principessa bellissima, come quelle di cui raccontava mamma prima di dormire; sicuramente non avrei avuto più paura ad addormentarmi, perché ci sarebbero stati degli impavidi cavalieri, pronti a sconfiggere tutti quelli che cercavano di fare del male alla mia mamma.
Quando entrammo capii che non era per niente un castello: era tutto grigio e c’erano dei poliziotti che spingevano con violenza altri uomini per portarli via. Uno di questi poliziotti ci accompagnò in una stanza. Quando la porta si aprì, vidi dentro il mio papà. Aveva la stessa faccia arrabbiata di sempre, forse più del solito. Non mi salutò nemmeno e la mamma mi strinse un po’ più forte la mano: era nervosa. Ci sedemmo a un tavolo, a dividerci da lui c’era solo un basso vetro, assomigliava a un tavolo da ping-pong, ma non c’era nessuna racchetta. Mamma mi disse di mettermi a terra a giocare con la mia bambola.
Papà non aveva neanche notato com’ero vestita.
Mi salirono le lacrime agli occhi, ma le scacciai subito.
Cercai di concentrarmi sulla bambola per non pensare a quello che dicevano i miei genitori. Provai a non ascoltare, ma era più forte di me: la mamma voleva lasciare mio padre. Sapevo che lui non era la persona giusta per lei, non la vedevo mai felice quando stavano insieme.
Mi sarebbe piaciuto se la mamma avesse trovato un uomo che finalmente la facesse ridere e non urlare e disperare.
Quando mamma pronunciò quelle parole calò il silenzio: percepii un improvviso gelo e la vidi irrigidirsi. Papà si alzò improvvisamente dalla sedia e si scagliò contro di lei.
Vidi il terrore sul viso della mamma.
Lui iniziò a tirarle pugni e schiaffi. Non volevo che la mamma si facesse male.
Ma perché papà faceva così? Perché papà era così cattivo? Non mi accorsi nemmeno quando un poliziotto lo portò via. Mi trovai subito tra le braccia della mia mamma. Le mie lacrime si mischiarono con le sue e lì, sul pavimento freddo di quella prigione, desiderai per un attimo che tutte quelle fantasie sul castello non fossero semplici sogni, ma realtà. Avrei voluto che, riaperti gli occhi, mi fossi trovata in cima ad una torre nella mia camera rosa, dove l’unica preoccupazione fosse stata scegliere quale vestito indossare per la cena.
Venturi Emma – 1LB
Liceo Artistico "Fausto Melotti", sez. Lomazzo (Co)
Il Premio Nazionale Lea Garofalo, ideato dal direttore di WordNews.it Paolo De Chiara, è stato organizzato da Dioghenes APS – Associazione Antimafie e Antiusura, in collaborazione con WordNews, Romanzi Italiani e Lo Scriptorium.
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