Palermo. Via Isidoro Carini. Una scultura in bronzo, con su incise parole graffianti l’animo: “A ricordo di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emmanuela Setti Carraro, Domenico Russo, assassinati da mano criminale e mafiosa la sera del 3 settembre 1982”.
Questa è stata la tappa, moralmente obbligata, di un toccante “pellegrinaggio laico” durante il mio viaggio della legalità a Palermo lo scorso maggio.
Percepire il calore riposto in quel tenero abbraccio scolpito sulla lapide commemorativa, con cui il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa avvolge la sua giovane moglie Emmanuela Setti Carraro, in segno di un’eterna protezione, quella protezione che purtroppo non era riuscito a garantirle mentre veniva crivellata barbaramente a colpi di kalashnikov da un commando mafioso, nonostante avesse provato a farle scudo con il suo corpo, ti fa rigare il volto di calde lacrime. Sosti sull’asfalto che ha assistito al consumarsi dell’efferato delitto e non puoi non interrogarti sul perché di tanta spietata ferocia così come non puoi non chiederti, proprio come ha fatto Pietro Grasso, da procuratore antimafia, se “tutta la verità è stata accertata e tutte le responsabilità sono state scoperte”.
Una domanda che resta ancora aperta dopo 41 anni dalla strage, come sottolineano i giudici della Corte d’Assise: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il Generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse Istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del Generale”.
Per i poteri forti, collusi con la mafia, il Generale-Prefetto Dalla Chiesa costituiva un pericolo scomodo da eliminare; per i cittadini palermitani onesti, invece, rappresentava la speranza. Sul luogo dell’attentato una mano anonima lasciò, infatti, questa scritta: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.
Allo sgomento e alla disillusione della città fecero eco anche le durissime parole dell’arcivescovo Salvatore Pappalardo durante i funerali celebrati nella Chiesa di San Domenico: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. E Sagunto era Palermo. Una Palermo messa a ferro e fuoco da un sistema criminale che Dalla Chiesa, con la sua singolare perspicacia di uomo d’azione, aveva subito svelato, con un rapporto contro 162 boss: il nucleo originario del maxiprocesso a Cosa Nostra. Sul fronte delle collusioni e delle connivenze, le iniziative del Generale-Prefetto, come hanno scritto ancora i giudici, erano “un campanello d’allarme per chi traeva impunemente quanto illecitamente vantaggio dai rapporti tra la mafia e la politica, soprattutto nel mondo degli appalti”.
Per questo, “l’operazione Dalla Chiesa” si doveva concludere celermente: Dalla Chiesa stava scoprendo troppo!
Con quei poteri tanto reclamati e promessi – ma che non gli erano stati ancora conferiti quando venne brutalmente ucciso! – il suo progetto di colpire la struttura militare di Cosa Nostra e di spezzare il sistema di accordi tra mafia e politica si sarebbe potuto realizzare. Ecco perché la sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza del prefetto lenzuoli per coprire i cadaveri (?!), ma allargò lo sguardo verso la cassaforte dove il generale custodiva documenti scottanti, tra cui un dossier sul caso Moro. Quando la cassaforte fu aperta era vuota.
Non è questa una pagina molto affine ad un’altra già letta nel libro dei misteri dello Stato? L’agenda rossa di Paolo Borsellino!
La sua sfida alla mafia, iniziata a Corleone come giovane ufficiale dei carabinieri e proseguita a Palermo tra gli anni Sessanta e Settanta, era ripresa il 30 aprile 1982. Era stato appena ucciso Pio La Torre e Dalla Chiesa aveva dovuto affrettare i tempi per assumere l’incarico di superprefetto. Con il governo era stato chiaro: veniva per indagare anche sulla “famiglia politica più inquinata dell’isola”.
Carlo Alberto Dalla Chiesa avrebbe potuto ottenere anche contro la mafia gli stessi successi ottenuti contro il terrorismo, se non fosse stato assediato dalla mafia stessa, se non fosse stato circondato da ostilità diffuse, se non fosse stato lasciato senza quei poteri reclamati così insistentemente. Ed, invece, come egli stesso rivelò nell’ultima intervista al giornalista Giorgio Bocca: “Un uomo delle Istituzioni viene colpito quando è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché è isolato”. E tutti gli “uomini soli” – eloquente, a tal proposito, il titolo di un libro di Attilio Bolzoni – sono lucidamente consapevoli di questa loro condizione e, di conseguenza, della loro ineluttabile sorte: Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
“Vogliatevi sempre il bene di ora”, “Una storia d’amore”, “Una famiglia in caserma”, “Padre quotidiano”, “Ritratto privato”, “I suoi carabinieri”, “Prata e l’amore per la campagna”, “Nonno e nipotini”, “La lotta al terrorismo”, “Emmanuela”, “L’arrivo a Palermo”, “Il 3 settembre”, “Ciao papà”, “Alla ricerca della verità”, “Siamo andati oltre”: 15 preziose tessere che, attraverso la voce delicata, accorata, commossa dei figli Rita, Nando e Simona, ricostruiscono lo splendido mosaico di “un papà con gli alamari”. Più che una biografia, si delinea come un toccante viaggio fra i sentimenti, le emozioni, i luoghi, i valori del Generale e Prefetto Italiano Carlo Alberto dalla Chiesa. Un viaggio di famiglia, guidato dai suoi adorati figli, i quali, aprendo le stanze dei ricordi, ci regalano il ritratto privato di un papà e, insieme, di un eroe.
Un mosaico che restituisce una ulteriore dimensione del “Generale-Uomo”, complementare a quella pubblica nota ai più. Una dimensione bellissima e ricca di affetti, che era comunque il presupposto e la sostanza del suo profilo pubblico. Il suo essere uomo era strettamente intrecciato al suo essere carabiniere. Il suo codice di valori privati era lo stesso che lo accompagnava in ogni azione della sfera professionale. La divisa era il suo abito “borghese”, perché per lui non c’erano due stili di comportamento, ma un unico modo di attraversare la vita a testa alta, con la sua severità e la sua dolcezza, la sua autorità e la sua profonda umanità, mirabilmente armonizzate nell’unità dell’ “uomo buono”, come lo definì l’ex brigatista e collaboratore di giustizia Patrizio Peci, quando venne intervistato da Zavoli nel programma “La notte della Repubblica” sulle vicende a cui era legata la sua storia.
Un uomo buono che, proprio il 30 aprile 1982, fa arrivare a ciascuno dei figli una lettera, un vero e proprio testamento spirituale, un imperativo pieno di amore, da un volo che lo portava inesorabilmente verso la fine. In un passaggio della lettera si legge: «Vi voglio bene, tanto, e in questo momento vi chiedo di essermi vicini; così come nei mesi e negli anni che verranno. Vogliatevi soprattutto e sempre il bene di ora! Quanto vi ho scritto, l’ho fatto a 7-8000 metri di altezza, in cielo, mentre l’aereo mi portava veloce verso Palermo. Vi abbraccio forte forte, il vostro papà».
Accanto a questo testamento spirituale ai propri figli, Carlo Alberto Dalla Chiesa ne ha lasciati diversi anche a quei tanti giovani che amava, in cui credeva molto e di cui volle incrociare “gli occhi puliti”, come era solito affermare, in diverse scuole di Palermo.
Potremmo affiggere, ad esempio, le parole che rivolse agli studenti del Liceo Garibaldi sulle pareti – fisiche e non – delle nostre aule di Educazione civica:
“Io sono come una fiammella che lo Stato ha voluto accendere in questa capitale bellissima che è Palermo… Credo nei giovani e sono venuto qui per dare loro qualcosa: spero di riuscire a creare con questa mia attività per lo meno dei dubbi in coloro che vivono nel marcio, che prosperano sulla corruzione. Io credo ancora che esistano valori, soprattutto perché noi siamo uomini e non numeri. Bisogna respingere qualsiasi forma di corruzione, perché è su questa che si alimenta la mafia e il vostro condizionamento. Bisogna fare affidamento esclusivamente sulla propria intelligenza…
La mafia è un modo di essere, un modo di pensare che travolge chiunque; noi dobbiamo studiare il modo di combatterla”.
Seguendo il suo esempio, fermamente convinti di essere uomini e non numeri e credendo nell’esistenza di valori, potremmo continuare ad ingenerare dei dubbi: la più alta forma di intelligenza e l’inizio della conoscenza.
Solo così potremo dare un senso alla nostra vita.
“Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio.
È una barca che anela al mare eppure lo teme.”
Questi sono versi del poeta Edgar Lee Masters, tratti dalla poesia “George Gray”, che dovremmo tenere sempre presenti. Non aver mai paura di porsi domande, di farsi sorgere dei dubbi, di affrontare la vita nelle sue bellezze e nei suoi dolori, di chiedersi chi siamo per capire meglio gli altri: questo è forse l’insegnamento più grande di filosofi e poeti. Forse non ci chiameremo Talete, Socrate, Hegel o Freud, ma tutti possiamo seguire le orme di Orfeo che prova a riemergere dall’oscurità “illuminato” di quella conoscenza che solo l’amore può dare, o essere il poeta che cerca di riportare alla luce piccoli pezzi dell’“inesauribile segreto” della vita. Ciò che è concesso forse non sarà il chiarore abbagliante di una luce senza ombre, ma un incerto chiaroscuro, nel quale ciascuno deve cercare la propria strada, senza essere assistito da altro che non sia la speranza, quella speranza che “i palermitani onesti” avevano ravvisato nel Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
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2023-09-03 11:27:47
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