Nella prima parte dell’intervista abbiamo toccato diversi temi, grazie alla memoria storica di Lorenzo Diana (già parlamentare e componente della Commissione parlamentare Antimafia), sulla decisione dell’ex capo dei casalesi Schiavone, detto Sandokan, di collaboratore con la giustizia.
Abbiamo lasciato una domanda in sospeso. E ripartiamo proprio dai legami politici e imprenditoriali del clan sanguinario casertano.
Questa rete formata anche da imprenditori e da politici si sente al sicuro dopo la scelta di Schiavone?
«Sicuramente ci saranno elementi di questa rete che avranno paura. Altri lo mettono nel conto sin dall’inizio, soprattutto in un Paese come il nostro in cui la giustizia è lenta e farraginosa. Mettono in conto il rischio in cambio di un arricchimento. Poi c’è da considerare un altro aspetto: ci sono persone nella società che non sono quasi nulla e vedono la camorra e le mafie come l’unico ascensore possibile, non solo economico ma anche di status, di potere. C’è gente che pur di avere potere e arricchimento è disposta ad affrontare anche il carcere. Sicuramente oggi molti staranno tremando perché temono di essere scoperti. Però bisogna dire che le dichiarazioni dei collaboratori, perciò mi richiamo alla caduta della scuola lasciata da Falcone e Borsellino, hanno rivelato ben poco. È mai passibile che un collaboratore come Iovine ha rivelato poche cose e anche contraddittorie. Ritenute anche poco affidabili. Qui subentra l’importanza della professionalità da parte di chi conduce le indagini e gli interrogatori».
Sembrerebbe essere un vantaggio per alcuni collaboratori.
«Chi ha scelto di fare il camorrista parte dal presupposto di dire solo ciò che gli convenga, invece di dire tutte le cose che conosce».
Ma Antonio Bardellino, che ha avuto il fratello sindaco di San Cipriano d’Aversa, è morto in Brasile o ci troviamo di fronte a uno dei tanti misteri italiani?
«Speriamo di arrivarne a capo. Il corpo non è mai stato ritrovato e la persona che l’avrebbe ucciso, Mario Iovine, è stato a sua volta ammazzato. Non sappiamo se Schiavone è in possesso di elementi nuovi da rivelare. O Mario Iovine fece un patto con Bardellino di passaggio di consegna del comando del clan oppure è stato ammazzato. Se fosse stato un patto a due – tra Iovine e Bardellino – bisogna aggiungere che il clan ammazzò due nipoti prediletti: Paride Salzillo, destinato a prendere le redini, e Antonio Salzillo. Bisognerebbe mettere in conto che lo zio avrebbe sacrificato i nipoti, una cosa molto dura da digerire. In quella fase ho visto molti bardelliniani tremare. Erano baldanzosi quando era in vita il fratello Antonio e poi, dopo la notizia, tremavano dalla paura. Ed erano quelli che fino al giorno prima erano arrogantemente insopportabili per la vita del nostro paese. Non può essere esclusa una partita giocata direttamente dal capo».
Oggi che situazione si vive a livello istituzionale? Esiste una vera lotta contro le mafie?
«Oggi c’è molta più preoccupazione di dare messaggi rassicuranti. A mio parere sono troppo rischiosi».
Tipo l’operazione Caivano?
«Operazione prettamente propagandistica. Se la camorra fosse quella che circoscrive un quartiere di Caivano perché abbiamo perso decenni per sconfiggere quattro delinquentucci di un quartiere di una città media della Campania? Si usa il caso Caivano, con i viaggi di tutti i ministri, senza recidere le radici. Su questo c’è una irresponsabilità del Governo che, man mano, depotenzia gli strumenti della magistratura e dello Stato nei confronti della mafia. Ci troviamo di fronte a un ipergarantismo nei confronti dei potenti e un giustizialismo populista teso a rassicurare. Questo Governo è permissivo con i potenti e molto propagandistico sulle piccole cose. Basti pensare l’indurimento delle pene nei confronti dei ragazzi che imbrattano i muri e che partecipano ai concerti rave. Ma perchè non si parla più di tanto della Calabria e della Sicilia e del potere economico dei clan? Come si fa ad approvare un Codice degli appalti che alza talmente la soglia degli affidamenti senza gare di appalto?»
Per l’intento propagandistico?
«È evidente. Ma di fatto si nasconde un indebolimento degli strumenti di deterrenza delle mafie».
In tutto questo ragionamento possiamo far rientrare il Decreto Nordio che riguarda anche le intercettazioni?
«Certo. Per le intercettazioni sono contrario a quelle a strascico se non fondate da necessità. Sono sicuramente contrario alla superficialità e alla gestione molto discutibile da parte anche di pezzi della magistratura sulle intercettazioni. Vedere pubblicate cose che non c’entrano nulla con le indagini, solo per delegittimare le persone, mi vede nettamente contrario. Più che discutere di test attitudinali perché non si pone mano da alcune norme per dare più garanzia alla Giustizia. Serve il personale e servono le risorse per migliorare il sistema giudiziario. Si possono pensare a delle riforme per offrire maggiori garanzie? E l’ho subito sulla mia pelle».
Oggi esiste un nuovo capo del clan dei casalesi?
«In questa fase che vede venir meno la struttura verticistica del clan casalese, contrariamente a tutti gli altri gruppi della camorra campana, abbiamo due capi non collaborativi: Zagaria e Bidognetti. Abbiamo avuto, pochi mesi fa, l’arresto di una decina di persone con a capo il figlio di Enrico Martinelli, il capozona di San Cipriano d’Aversa nel passato. Questo rampollo continuava l’attività del padre come gli altri figli di altri capi. In genere hanno meno professionalità, meno potere, meno manovra. Molti figli e familiari di camorristi continuano a gestire gli affari. Ardituro sostiene una cosa diversa da Maresca. I rampolli continuano a gestire lo spaccio della droga, prima vietato dai padri nei nostri territori, la gestione quasi totale delle sale scommesse, gli appalti di quegli imprenditori legati alla camorra. Perché con il centro dati, possibile da consultare, non si verificano gli arricchimenti veloci presenti nei territori criminali? Questi nuovi rampolli continuano le attività criminalità».
Esiste una responsabilità dello Stato nei confronti del clan casertano?
«Per la latitanza dello Stato, durata venti anni, è stato lasciato campo libero al clan dei casalesi, facendolo diventare – da una banda di ladri, di truffatori, rubavano tir – un clan potentissimo. Lasciando in trincea quattro folli. È diventato talmente temibile che gestiva latitanze e influiva talvolta anche sulle scarcerazioni. Esiste una chiamata di corresponsabilità di quel territorio come tanti altri territori. Basti pensare alla Calabria. C’è stata una latitanza che ha garantito, per circa 25 anni, impunità fino alla prima operazione, il 5 dicembre 1995, quando arrestarono i primi 152 casalesi. Obbligò lo Stato ad essere attento alle dinamiche del territorio. Sino ad allora non c’erano segnali incoraggianti».
Seconda parte/Fine
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2024-04-19 11:51:11
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