Eros Priore internato nella Casa Lavoro di Vasto, Zio N., malato grave e detenuto nel carcere di Chieti. Nomi che al massimo hanno conquistato poche righe sulla cronaca locale e poi son stati spazzati via da ogni orizzonte mediatico e sociale. Solo l’anno scorso oltre duecento persone morte, ottantotto i suicidi accertati. Sono tutte morti annunciate, tutte avvenute in carceri italiane.
«Chiamiamoli con il loro nome: sono delitti di Stato – denuncia Rita Bernardini, Nessuno Tocchi Caino – per i quali nessun procuratore, nonostante le denunce che continuiamo a presentare, fino a questo momento ha voluto individuare i responsabili. Che sono molto, molto, molto in alto».
I reietti, gli emarginati, i senza voce, esistono anche nel XXI secolo. Coloro che la brava borghesia butterebbe al rogo se potesse. Per poi inginocchiarsi se compaiono colletti bianchi, ventiquattrore, paccate di potere e soldi. La salute, la dignità, la vita, dovrebbero essere diritti umani fondamentali, diritti universali, garantiti a tutte e tutti. Ma la realtà, drammaticamente e ingiustamente, non corrisponde mai ai proclami e alle dichiarazioni di principio.
«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» proclama l’articolo 27 di quella Costituzione amata, difesa, sacralizzata da tanti, la “costituzione più bella al mondo” e con un numero di defensor fidei che non basterebbe il Maracanà a contenerli tutti, soprattutto tra coloro che dovrebbero avere come stella polare il “bene comune”. La quotidianità nelle carceri italiane testimonia, brutalmente, l’abisso tra quel che declamano costoro e la realtà reale, la vera verità sulla carne viva di persone a cui è negato ogni diritto, ogni dignità, la vita stessa.
«Chi poco sa subito parla» ammonisce antica saggezza popolare. In un mondo in cui sempre più assediano superficialità, volgarità, prepotenza, tracotanza e ignoranza si è andati oltre e chi nulla sa parla ancora prima di subito. Cercando di imporre il proprio non sapere con arroganza e violenta prevaricazione, ergendosi a censori degli altri e unico (non) pensiero.
Di fronte le porte di un carcere esplode in tutta la sua tracotante virulenza tutto questo. Il pluriverso carcerario è tra i luoghi meno illuminati e meno conosciuti e, in vizio di tutto questo, più se ne (s)parla e si giudica. Di fronte le sbarre di un penitenziario tanti, troppi, si arrogano il diritto di cancellare ogni proclama costituzionale, umano, di diritti e valori. Chi si trova in quei non luoghi è una persona, un essere umano, ha diritti e dignità.
In questo 2025 che già è stato segnato dai primi suicidi nelle carceri italiane tra queste persone (ricordiamola sempre questa parola, sono persone, esseri umani) c’è Patricia Nike. «L’ennesima storia di sofferenza fisica e mentale, una tra le tante che si incrociano lungo i corridoi delle sezioni del carcere se si è predisposti all’ascolto – denuncia Claudio Bottan, Voci di Dentro – l’ennesima storia di una persona che il carcere non avrebbe potuto curare e che, invece, in carcere ha trovato la morte». Ripubblichiamo il racconto – denuncia della vita spezzata di Patricia Nike di Claudio Bottan, pubblicato sul sito di Voci di Dentro https://vocididentro.it/ lo scorso 24 gennaio.
Una foto dello scorso marzo la ritrae accanto a Papa Francesco quando il pontefice ha celebrato la Messa in Coena Domini nel penitenziario femminile di Rebibbia dove ha lavato i piedi a dodici detenute.
“Il Papa consola una donna in lacrime”, scriveva Vatican news raccontando l’incontro di Bergoglio con le donne recluse. “Prima di entrare in infermeria, dove avrebbe salutato quelle che non avevano potuto partecipare alla celebrazione, un fuori programma: una donna di origine africana, retta da due assistenti, urla e scoppia in un pianto incontrollabile. Già durante la Messa aveva manifestato il suo disagio. “Soffro troppo, non ce la faccio più, soffro tanto”, dice tra i singhiozzi a Papa Francesco che la accarezza, prova a tranquillizzarla, poi le poggia una mano sopra la fronte e le assicura preghiere, invitando anche lei a pregare”.
Quella donna sofferente si chiamava Patricia Nike, nigeriana di 54 anni. È arrivata al carcere Pagliarelli di Palermo in ambulanza lo scorso 8 gennaio, e lì è morta dopo appena quattro giorni dal suo ingresso a seguito di un trasferimento da Rebibbia femminile. Ne ha dato notizia Pino Apprendi, garante dei detenuti Palermo, chiedendosi quale fosse stata la logica del trasferimento dato che, dalle prime notizie, pare che la donna non avesse familiari in Sicilia. È da escludere anche l’ipotesi che la scelta dell’istituto palermitano sia stata determinata da una particolare eccellenza nell’ambito sanitario. Già in passato, infatti, lo stesso garante aveva più volte denunciato le gravi carenze nell’assistenza sanitaria al Pagliarelli, struttura che deve fare i conti con il sovraffollamento ormai strutturale che investe la maggior parte dei penitenziari italiani.
Non si conoscono ancora le cause precise di una morte così repentina, e nessuna informazione ufficiale è trapelata al momento sul decesso di Patricia. Una morte che non ha trovato spazio nemmeno tra gli “eventi critici” cui fa periodicamente riferimento il Dap quando si tratta di redigere statistiche. Da quanto Voci di dentro ha appreso da fonti istituzionali, pare che la donna fosse affetta da varie patologie, inclusa la positività all’Hiv, e fosse in terapia con metadone per la tossicodipendenza che aveva segnato profondamente la sua vita. Proprio per questo, qualche mese prima era stata richiesta la sospensione della pena per consentirle di curarsi adeguatamente; istanza rigettata in quanto, nonostante una condanna di poco più di due anni – a parere dell’ufficio di Sorveglianza – sarebbe stata adeguatamente assistita e curata a Rebibbia. Meno di un mese fa era stata dimessa dopo un ricovero e aveva fatto ritorno in cella.
Lo scorso mese di ottobre il Dap aveva disposto lo “sfollamento” di venti delle donne recluse a Rebibbia femminile, a cui è stato dato seguito a gennaio con trasferimenti in vari istituti della Penisola motivati da esigenze logistiche per lavori di ristrutturazione di una delle sezioni. Quali erano realmente le condizioni di salute di Patricia al momento del suo trasferimento al Pagliarelli? “C’è da augurarsi che quantomeno abbia potuto viaggiare in aereo e senza manette” aggiunge Apprendi. Già, non necessariamente con un Falcon di Stato ma in modo dignitoso date le condizioni di salute.
Al suo arrivo la donna è stata collocata in cella con altre tre detenute, ad una delle quali è stato assegnato il compito di assisterla come caregiver, “il piantone” nella terminologia carceraria, a cui viene riconosciuto un compenso per il lavoro svolto. Pare che avesse serie difficoltà di deambulazione, tanto che qualcuna tra le recluse del Pagliarelli l’ha notata muovere passi incerti appoggiata ad un girello.
Quali erano realmente le sue condizioni di salute durante la permanenza a Rebibbia femminile? E, quanto al trasferimento a Palermo, si è trattato di un’ordinaria operazione di “sfollamento” oppure di una scelta dettata da esigenze di gestione di quelle persone problematiche che, nel cinico gergo carcerario, vengono classificate come “incollocabili”? Gli ultimi tra gli ultimi, quelle persone affette da patologie psichiatriche, malate e tossicodipendenti che non dovrebbero trovarsi in carcere bensì curate nelle Rems e in strutture adeguate. Domande, queste, alle quali intende ottenere risposte la senatrice Ilaria Cucchi di AVS attraverso una formale richiesta di accesso agli atti, con l’obiettivo di fare chiarezza in una vicenda con molte opacità.
È l’ennesima storia di cui non si parla volentieri, una delle tante che passano di bocca in bocca, a cui infine danno voce coloro che il carcere lo conoscono e provano a cambiarlo mantenendo alta l’attenzione, esercitando quel diritto all’informazione “galeotta” che spesso si preferirebbe silenziare.
La trasparenza, d’altronde, non è propriamente una virtù dell’istituzione penitenziaria. Quell’apparato che dovrebbe essere un palazzo di vetro, fatica ad accettare il principio sacrosanto secondo il quale i diritti dell’individuo non sono automaticamente sospesi varcando la soglia del carcere. Diritto alla salute, all’affettività e perfino a una morte dignitosa, troppo spesso vengono calpestati assecondando le presunte esigenze di “ordine e sicurezza” tanto care al Governo.
“In carcere ci sono innanzitutto persone che hanno problemi di dipendenza problematica da sostanze stupefacenti, tossicodipendenti per intenderci, i casi psichiatrici, molti poveri, come i senza tetto o senza fissa dimora, e poi gli stranieri, quelli soprattutto che non hanno il permesso di soggiorno, che sono degli invisibili, che spesso commettono reati perché nessuno gli dà un lavoro” ripete come un mantra Rita Bernardini, Presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Gli invisibili, quelli di cui la società civile preferisce non sapere.
Anche della travagliata esistenza di Patricia e delle sue sofferenze sappiamo ben poco. D’altronde a chi potrebbe interessare di una delinquente, tossica, per giunta nera ed extracomunitaria? Giusto a Papa Francesco.