In un momento segnato da sconvolgimenti globali e da venti di guerra che soffiano sempre più forti sull’Europa, parlare di sanità potrebbe sembrare fuori luogo. Eppure, proprio in tempi di crisi, non possiamo permetterci il lusso di ignorare lo sfacelo che sta investendo un bene comune essenziale come la salute. La crisi della sanità è solo un tassello – ma significativo – dello sgretolamento di quel mondo nato dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Non mi soffermerò, stavolta, sulla trasformazione delle USL in ASL, sulla riduzione dei posti letto senza soluzioni alternative, sul numero chiuso a Medicina, sul costante definanziamento del Fondo Sanitario o sull’incremento del privato convenzionato. Di questi aspetti ho già scritto molto.
Voglio invece porre l’attenzione su un fattore meno dibattuto, ma che contribuisce in modo determinante al collasso del nostro sistema sanitario: la digitalizzazione imposta dall’alto, priva di un reale confronto con chi lavora ogni giorno sul campo.
Questa informatizzazione selvaggia sta stravolgendo il nostro lavoro. Non riguarda solo i Pronto Soccorso, ma investe ogni reparto, ogni ambulatorio, fino alla medicina di base. I medici di famiglia sono ormai vincolati allo schermo del computer, e ogni visita diventa una corsa a ostacoli tra codici, software e piattaforme.
Invece di curare, raccogliamo dati. Invece di ascoltare, clicchiamo. Il tempo per il paziente si assottiglia, sacrificato sull’altare della burocrazia digitale. L’empatia – un pilastro del rapporto di cura – viene relegata ai margini, compressa tra protocolli e scartoffie elettroniche.
Il processo ha radici lontane. Tutto è iniziato con l’introduzione del DRG (Diagnosis Related Group), un modello importato dagli Stati Uniti per attribuire un valore economico a ogni prestazione sanitaria. Un sistema pensato per un contesto in cui la salute è considerata merce, e che ora si è insinuato anche nel nostro modello, trasformando la cura in una prestazione da fatturare.
Il risultato? Un sistema sempre più disumanizzato, in cui gli operatori sanitari – e i medici in particolare – vengono ridotti al ruolo di operai in una fabbrica fordista, costretti a produrre prestazioni anziché offrire assistenza.
Siamo sommersi da linee guida, vincolati a protocolli diagnostici estensivi, spesso dettati più dal timore di ricorsi legali che da esigenze cliniche reali. È cambiata la nostra identità professionale. E con essa, il cuore della medicina.
Viene da chiedersi: arriverà mai il momento in cui prenderemo coscienza collettiva che non si può andare avanti così? Quando ci organizzeremo per invertire questa rotta?