C’è un luogo, tra le pietre selvagge dei monti siciliani, dove il vento porta ancora l’eco di spari e di urla. È Portella della Ginestra, contrada di Piana degli Albanesi, dove il 1° maggio 1947, durante la Festa dei Lavoratori, undici persone vennero uccise e oltre cinquanta ferite dai colpi della banda armata di Salvatore Giuliano.
Ma la storia, come spesso accade in Italia, ha molte più ombre che luci. E ancora oggi, a quasi ottant’anni di distanza, c’è chi parla apertamente di strage di Stato.
Le vittime: nomi da non dimenticare
Quel giorno, in mezzo a contadini, famiglie e sindacalisti, morirono:
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Giovanni Grifò, 12 anni
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Vincenzo La Fata, 15 anni
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Giuseppe Di Maggio, 13 anni
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Giovanni Megna, 18 anni
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Giovanni Spera, 72 anni
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Gaspare Cannizzaro, 51 anni
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Filippo D’Amico, 48 anni
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Nicola Alongi, 36 anni
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Salvatore Tusa, 22 anni
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Ciro Di Dia, 26 anni
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Carmelo Lo Bue, 42 anni
Tutti civili. Tutti disarmati. Molti giovanissimi, addirittura bambini. Erano lì per celebrare il ritorno della speranza, con la vittoria del Blocco del Popolo (PCI-PSI) alle prime elezioni regionali siciliane. Una speranza spenta da proiettili sparati con precisione, in direzione del palco, delle bandiere rosse, dei corpi che ballavano.
Strage mafiosa, strage politica o strage di Stato?
Secondo la versione ufficiale, l’attacco fu un’azione autonoma del bandito Salvatore Giuliano, mirata a colpire il movimento contadino che minacciava gli interessi agrari.
Ma le versioni alternative sono molte, documentate e inquietanti.
Indagini e processi, fin da subito, mostrarono gravi depistaggi, reticenze e coperture. Si parlò di coinvolgimento dei servizi segreti, di pezzi deviati dello Stato, dei latifondisti legati alla mafia e del nascente blocco anticomunista, sostenuto anche dagli Stati Uniti in chiave antisovietica.
Nel processo di Viterbo del 1950, Giuliano era già morto (ucciso in circostanze mai ufficialmente chiarite) e Gaspare Pisciotta, suo luogotenente, accusò apertamente politici di governo. Morì avvelenato in carcere prima di poter testimoniare. Nessun mandante fu mai identificato.
Per molti storici, da Giuseppe Casarrubea a Luciano Canfora, passando per Saverio Lodato, Portella fu una strage di Stato. Un atto di terrorismo politico per fermare sul nascere il movimento contadino e impedire alla sinistra di conquistare la Sicilia, porta del Mediterraneo.
Nel luogo dell’eccidio, dal 1980, sorge un’opera unica nel panorama italiano: il Memoriale di Portella della Ginestra, ideata da Ettore de Conciliis. Un paesaggio scolpito nel dolore e nella resistenza, fatto di pietre alte fino a sei metri, con incisi nomi, volti, versi e simboli.
Al centro, il Sasso di Barbato, da cui il socialista Nicola Barbato, arringava i contadini. Intorno, un muro a secco che taglia il terreno come una ferita. Tutto parla, tutto resiste, tutto ricorda.
Incisa in albanese una poesia struggente:
«Il primo maggio anche le pietre bevvero sangue.
I ragazzi caddero e i vecchi in primo luogo,
nella Portella della Ginestra piena di morti!»
Cultura, arte e resistenza
La strage ha ispirato artisti, scrittori, registi e musicisti. Dal film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi al romanzo Noi che gridammo al vento di Loriano Macchiavelli, passando per le tele di Renato Guttuso, il teatro di Zef Schirò Maji, la musica popolare dei Yu Kung. Ognuno ha dato voce a quella verità sepolta sotto strati di silenzio.
Nel 2025, mentre si torna a parlare di diritti dei lavoratori, di mafie silenziose e apparati deviati, Portella della Ginestra è più attuale che mai.
Un luogo che continua a interrogare le coscienze e che grida: senza verità non c’è giustizia.
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