Venticinque anni fa ci lasciava Gino Bartali, il “Ginettaccio” burbero ma amatissimo che ha scritto pagine leggendarie di ciclismo italiano e di resistenza civile.
A distanza di un quarto di secolo, la sua figura continua a pedalare nella memoria collettiva, esempio raro di sportivo capace di superare i confini dello sport.
Professionista per vent’anni, Gino Bartali ha vinto 3 Giri d’Italia (1936, 1937, 1946) e 2 Tour de France (1938, 1948), in un’epoca in cui le strade erano sterrate, le bici di ferro e i dolori veri.
Bartali fu simbolo di tenacia e sacrificio, un esempio di ciclismo epico, quello che si viveva tra i monti, le borracce da passarsi e le cadute da cui rialzarsi.
La rivalità con Fausto Coppi, fatta di distanze ideologiche e sportive, accese gli animi e divise l’Italia: Coppi era il moderno, Bartali il tradizionalista. Ma il rispetto tra i due era profondo, come racconta la storica foto della borraccia sul Galibier nel 1952, divenuta icona nazionale.
Nel luglio del 1948, con l’Italia sull’orlo della guerra civile dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, Bartali ricevette una telefonata da Alcide De Gasperi: «Fai qualcosa per il Paese». E lui rispose. Nella tappa da Cannes a Briançon, sfidando le Alpi e il tempo, vinse.
E vinse anche il giorno dopo. Conquistò il Tour e, secondo molti, rasserenò il Paese. Quando tornò in Italia fu accolto come un salvatore. E rifiutò ogni onore: chiese solo “di non pagare più le tasse” – pare ironicamente, ma il mito è anche questo.
Durante la Seconda guerra mondiale, Bartali salvò centinaia di ebrei, nascondendo nei tubi della sua bici documenti falsi destinati alla rete clandestina DELASEM, guidata a Firenze dal cardinale Elia Dalla Costa e dal rabbino Nathan Cassuto.
Lo fece senza mai vantarsene: «Il bene si fa, ma non si dice», ripeteva. Solo molti anni dopo, grazie a testimonianze ritrovate, il mondo seppe. E Israele lo proclamò Giusto tra le Nazioni nel 2013.
Una frase sua dice tutto:
«Certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca».
Dopo il ritiro, Bartali divenne dirigente, ambasciatore dello sport, ospite amato in tv. Ma anche quando la vita lo mise in difficoltà, rifiutò il vitalizio previsto dalla legge Bacchelli, perché “sarebbe stato ingiusto verso i gregari”.
Un gesto che riassume il suo spirito: umile, leale, granitico.
Oggi piazze, musei e corse commemorative portano il suo nome. Il suo esempio vive tra chi crede che lo sport possa migliorare il mondo, che la memoria vada difesa, e che gli eroi veri non chiedano gloria, ma agiscano nel silenzio.