Neoliberismo in Italia: dalla decisione segreta alla svendita dello Stato
Era il 1981 quando Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia, scrisse una lettera al ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. In quella missiva, apparentemente tecnica, si sanciva una svolta epocale: la Banca d’Italia non avrebbe più acquistato i titoli di Stato invenduti. Una decisione presa senza consultare il Parlamento. Nessun dibattito pubblico, nessun referendum. Solo una stretta di mano tra due uomini di potere.
Quell’atto segnò l’inizio del neoliberismo in Italia, una stagione fatta di interessi altissimi sui Bot, debito pubblico esploso e una narrazione che avrebbe cambiato per sempre l’identità economica e sociale del Paese: “Il pubblico è inefficiente, il privato è moderno ed efficace.”
Nel 1990 il debito pubblico schizzava al 120% del PIL. Ma invece di tornare indietro, si andò avanti. Nel 1992, sul panfilo Britannia, si riunirono economisti, politici e banchieri per discutere la svendita dei gioielli di famiglia: banche, infrastrutture, aziende strategiche. La ricetta venne applicata con fervore da Romano Prodi, salutato come il salvatore dell’Italia, ma in realtà fautore della privatizzazione selvaggia.
La giustificazione? “Abbiamo un debito troppo alto, dobbiamo rientrare”. La realtà? Il debito non è mai sceso, ma lo Stato è diventato più povero, e con esso anche i cittadini.
Il lavoro precario come pilastro del nuovo sistema
Mentre svanivano i beni pubblici, anche il lavoro perdeva le sue garanzie. Il pacchetto Treu prima, la riforma Fornero poi, infine il Jobs Act di Renzi hanno disegnato un mondo fatto di contratti a termine, lavoro usa-e-getta, abolizione dell’articolo 18, licenziamenti senza giusta causa. Un Paese sempre più flessibile… ma solo per chi sta in basso.
E i frutti di questa flessibilità li abbiamo visti anche dopo il crollo del ponte Morandi: per liberarsi dai Benetton, lo Stato ha dovuto pagare oltre 9 miliardi di euro, per clausole contrattuali blindate. Chi le aveva inserite? Ancora una volta, il “padre” delle privatizzazioni: Romano Prodi.
Il referendum dell’8-9 giugno: un bivio storico
A distanza di decenni, c’è una possibilità per cambiare rotta: il referendum dell’8 e 9 giugno 2025. Se verrà raggiunto il quorum, l’Italia potrebbe dare un segnale fortissimo: basta precarietà, basta privatizzazioni, basta soldi alle armi.
Perché è questo il cuore della questione: riappropriarci del concetto di bene comune, smettere di finanziare guerre e iniziare a investire in sanità, scuola, lavoro e diritti. Non è solo un voto. È una scelta di civiltà.