Abbiamo perso un’occasione. E nemmeno ce ne siamo accorti.
Il referendum dell’8 e 9 giugno 2025 è passato in sordina, come una voce fuori campo in un film che nessuno guarda. Cinque quesiti, nessuno dei quali ha raggiunto il quorum. Nemmeno lontanamente. E non stiamo parlando di argomenti marginali, tecnicismi da addetti ai lavori o quisquilie burocratiche: stiamo parlando di cittadinanza, salario minimo, sicurezza sul lavoro, scuola, giustizia ambientale. Cose reali, concrete, che toccano la carne viva del Paese. Eppure, il Paese ha deciso di girarsi dall’altra parte.
Cos’è andato storto? È troppo facile dire “colpa dell’astensionismo”. Troppo comodo dare la colpa ai cittadini, accusarli di disinteresse, di pigrizia civica. Ma la realtà è più complessa. E più scomoda.
Poca informazione? Decisamente sì. Qualcuno ha davvero sentito un dibattito serio in TV? Un confronto approfondito? Una campagna istituzionale degna di questo nome? Il referendum è stato trattato come un fastidio, un’interruzione del palinsesto, una seccatura da ignorare. E dove manca l’informazione, vince l’apatia. Dove manca il confronto, si rafforza l’indifferenza.
Astensionismo organizzato? Anche. Silenzi assordanti da parte di partiti che avrebbero dovuto promuoverli, o che almeno avrebbero potuto dire qualcosa. E invece nulla. Nessun appello, nessuna mobilitazione, nemmeno una spinta alla partecipazione. Il quorum, si sa, è il peggior nemico della politica opportunista: se rischi di perdere, meglio far fallire tutto. Meglio il nulla, che una voce contraria.
Eppure, ora ci ritroviamo con la solita indignazione di maniera. Quella che arriva dopo. Quando muore un operaio in cantiere, ci stringiamo nelle spalle e ci chiediamo come sia possibile. Quando un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri non può ancora definirsi italiano, parliamo di “integrazione mancata”. Ma poi, quando c’è la possibilità concreta di incidere – di passare da parole a fatti, da lamenti a leggi – il vuoto.
Davvero era così rivoluzionario concedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza, invece che 10, a chi cresce qui, studia qui, lavora qui? Davvero era così destabilizzante pensare a un salario minimo legale? Davvero ci disturbava tanto l’idea di punire le aziende che non garantiscono la sicurezza sul lavoro, laddove si continua a morire ogni giorno in nome della produttività?
Forse non siamo un Paese stanco. Siamo un Paese spento. Disilluso, disabituato alla partecipazione, scoraggiato da anni di promesse non mantenute e campagne costruite sul nulla. Ma la disillusione non può essere una scusa. Perché la democrazia ha bisogno di voce. E invece, abbiamo scelto il silenzio.
Il problema non è solo il mancato quorum. Il vero fallimento è morale e culturale. Abbiamo avuto la possibilità di dire la nostra, e non l’abbiamo fatto. Ora non abbiamo diritto di lamentarci. Ora non basta condividere post indignati sui social. Non basta piangere i morti sul lavoro il giorno dopo, se il giorno prima abbiamo ignorato l’occasione per proteggerli.
L’8 e il 9 giugno, abbiamo scelto di non scegliere. E questa è, forse, la scelta più grave.