Quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, in molti hanno tirato un sospiro di sollievo, illudendosi che le tensioni del suo primo mandato sarebbero state smussate da una nuova consapevolezza politica. Ma è bastato poco perché la realtà si imponesse: il Trump presidente del 2025 è sicuramente peggiore del Trump presidente del 2016. Più spigoloso, più determinato, e ancora più allergico al compromesso. E adesso il bersaglio si chiama Europa.
La sua richiesta è brutale quanto chiara: più spese per la difesa o saranno guai economici. Non è un’opzione, ma una condizione. Non è una proposta, ma un ultimatum. Il messaggio agli alleati NATO, lanciato con il consueto stile assertivo, non lascia spazio a dubbi: se non volete pagare con i vostri bilanci, pagherete con i vostri mercati.
E Pedro Sánchez è stato l’unico a farsi sentire, è stato l’unico a dire no. No all’idea che la Spagna debba stanziare il 5% del proprio PIL per la difesa, una cifra astronomica anche solo da immaginare. Il presidente spagnolo ha ricordato che Madrid ha già aumentato progressivamente il suo contributo, che partecipa attivamente alle missioni NATO e che la sicurezza non si misura solo in missili e carri armati.
La risposta di Trump è stata secca: minacce di dazi fino al 50% su settori strategici europei, a partire dall’agroalimentare, fino ad arrivare all’industria manifatturiera. Una rappresaglia economica mascherata da pressione geopolitica. E non è un attacco isolato alla Spagna: è un avviso a tutto il continente.
In questo senso, il caso Sánchez diventa emblema di una frattura più ampia: quella tra un’Europa che cerca un equilibrio tra le sue priorità interne e gli obblighi internazionali ed un’America che interpreta l’alleanza atlantica come una relazione contrattuale a senso unico. Se l’alleato non paga abbastanza, il patto diventa nullo.
Nel mezzo di questa tensione crescente, l’Italia di Giorgia Meloni cerca una postura di equilibrio. Da un lato, l’impegno formale a raggiungere il 2% del PIL per la difesa viene ribadito con convinzione. Dall’altro, le condizioni socio-economiche interne non rendono facile spiegare ai cittadini perché servano più fondi per le armi mentre sanità, scuola e welfare arrancano.
L’Italia, per ora, sembra voler evitare lo scontro diretto con Washington. Ma le conseguenze di uno scontro tra USA e UE ricadrebbero anche su di lei. Basta pensare all’export italiano negli Stati Uniti, dai formaggi alla moda, dai motori all’alta tecnologia. Ogni dazio è una tassa sui nostri prodotti, un freno alla competitività, un colpo al cuore del nostro sistema produttivo.
Eppure, anche sul fronte interno, emerge una contraddizione profonda: si chiede più Europa quando si tratta di difendersi dalla pressione americana ma si resta divisi e in ordine sparso appena bisogna scegliere una linea comune.
L’Unione Europea parla da tempo di “autonomia strategica”. Ma la realtà è che sul piano militare e geopolitico, l’Europa resta ancora ampiamente dipendente dagli Stati Uniti. Lo è per ragioni storiche, per mancanza di una vera politica estera comune, per la frammentazione degli interessi nazionali. E lo è anche perché, finora, è mancata una volontà concreta di emanciparsi da questa dipendenza.
Le dichiarazioni di Trump fanno dunque da cartina di tornasole. Il suo stile ruvido obbliga l’Europa a guardarsi allo specchio. Vuole davvero essere indipendente? È disposta a pagare il prezzo politico e finanziario per farlo? O continuerà a oscillare tra il ruolo di partner e quello di subordinata?
La reazione europea, per ora, è cauta. Ursula von der Leyen ha parlato di una “risposta compatta” ai dazi, ma dietro le quinte restano profonde divisioni. Berlino è preoccupata per la sua industria automobilistica. Parigi spinge per una difesa comune, ma a guida francese. Roma è attenta a non scontentare nessuno. E Madrid si fa simbolo di un dissenso esplicito, ma isolato.
Quello che Trump sta facendo con i dazi è chiaro: li usa non come strumento economico, ma come leva politica. È la sua maniera di negoziare — forzare la controparte fino al punto in cui non può più dire di no. L’Europa lo sa, ma non ha ancora trovato una vera strategia per rispondere.
Eppure, la storia recente ci ha insegnato che i dazi non sono mai neutri. Possono creare tensioni, recessioni locali, rialzi dei prezzi. Possono esasperare rapporti già fragili. E soprattutto, possono cambiare gli equilibri globali, aprendo spazi ad altri attori — come la Cina — pronti ad approfittare delle divisioni occidentali.
Ma in tutto questo c’è anche un’occasione. Perché forse è proprio sotto pressione che l’Europa potrebbe ritrovare la sua voce. Forse la minaccia di Trump può diventare il catalizzatore di una nuova fase politica: quella in cui l’Unione decide di smettere di rincorrere le crisi e inizia a prevenirle. In cui smette di reagire alle provocazioni e comincia a dettare la propria agenda.
Autonomia strategica non significa isolamento, né rottura con gli Stati Uniti. Significa costruire un rapporto tra pari, basato sul rispetto e sull’equilibrio. E se oggi questa prospettiva appare ancora lontana, è solo perché non è stata davvero messa alla prova.
I prossimi mesi saranno decisivi. Il 9 luglio si avvicina, e con esso la scadenza simbolica posta dagli Stati Uniti. Ma ben più importante sarà la capacità dell’Europa di parlare con una sola voce, di costruire una visione comune, di smettere di farsi dettare l’agenda da altri.
Perché in fondo, la vera sfida non è tra America ed Europa, ma tra un’idea di mondo fondata sul ricatto e una fondata sulla cooperazione. E oggi più che mai, scegliere da che parte stare non è solo un atto politico: è una dichiarazione d’identità.
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