C’è una scena di Fortapasc, il film di Marco Risi su Giancarlo Siani, centrale e che fa riflettere. Una passeggiata in riva al mare, Giancarlo e il suo “capo” che conversano amabilmente, ridendo e scherzando. Ma in quei secondi placidi e tranquilli c’è il racconto di tutta la storia civile italiana e del giornalismo. Un racconto conflittuale, quello tra il giornalista impiegato e il giornalista giornalista, tra chi tace e si amalgama e tra chi non trova mai pace. “Le notizie so rottur e cazz” viene detto al giovane irruento Giancarlo, invitandolo a tenersi alla lontana da queste rotture, a vivere in pace e sedersi. Ma il cronista non trova mai pace, il cronista vero vive nel suo intimo un tornado. La Mehari di Giancarlo è il simbolo del suo ricordo perché è stata le ali della ricerca, del vagare quotidiano ovunque e in ogni momento. Nelle terre di mafia, camorra, di ogni ingiustizia e oppressione, o nei teatri di guerra il cronista non si ferma nei grandi alberghi, non si accontenta di accucciare il microfono davanti ai potenti. Frequenta i bar e le piazze, si intrufola nei vicoli e negli anfratti delle città. Incontra l’umanità più varia, porta al centro le periferie e gli emarginati, dona voce a chi non ha voce, parafrasando Marco Revelli s’incunea nei meandri del disordine globale. Un episodio sconosciuto, apparentemente insignificante, di Pansa racconta tanto di quel che è stato: in attesa del maxi processo a Cosa Nostra intervistò un senza tetto sugli scalini del tribunale. Davanti al coro, anche ipocrita, di coccodrilli, retoriche e tanti fiumi di parole è passato quasi inosservato. E invece, di fronte a direttoroni, grandi editori, opinionisti, politici o presunti tali, salotti e salottieri, mi sia permesso scrivere che quel senza tetto è più testimone dei tempi di tutti, merita di stare al centro ed avere voce più di tutti loro. Un signore impegnato quotidianamente in una lotta molto più aspra e dignitosa dei tanti vacui cicisbei che la televisione e i grandi giornali cercano di regalarci. Nel reportage dopo il disastro del Vajont Pansa esordisce “scrivo da un paese che non esiste più”. E’ un paese che non è mai esistito invece quello delle periferie buie, non illuminate, dei luoghi dove muoiono le vittime delle guerre e delle repressioni, delle oppressioni criminali e delle ingiustizie quotidiane. Il Paese lontano dai palazzi e dove le “rottur e cazz” ti inseguono come un bambino corre dietro un pallone. Il tornado che non dona mai pace, che fa vivere sempre in perenne ricerca, che fa vivere con difficoltà, male, senza mai placarsi. La logica vorrebbe che si fugga lontano, che si viva cercando la Pace. Il giornalista giornalista invece è rabdomante della vita, come il cercatore d’acqua vive solo per quelle rotture. L’impegno di ogni giorno è svelare quel che non si può svelare, è cercare quel paese che non c’è. Anche se sa che non lo troverà mai, che la sua ricerca non finirà mai. Ma, come scrisse il grande Eduardo Galeano, il navigante naviga anche se sa che non toccherà mai le stelle che lo guidano.
In questi giorni la quasi totalità dei ricordi di Giampaolo Pansa si è fermata allo scontro sul “Sangue dei vinti” e gli altri libri dello stesso filone. Nessuno o quasi ha ricordato il suo ultimo sferzante libro sull’ex Ministro dell’Interno Salvini. Non potevano farlo le “destre” che avrebbero visto smontare la tavola apparecchiata sulla Resistenza, sui partigiani e tutto quel che abbiamo letto nei libri che tanto adorano da quindici anni. E c’è stato un silenzio tombale in quella che si definisce “sinistra”, che ogni giorno proclama di esserne opposizione e alternativa. Lo spettacolo che forniscono non merita che ci si perda tempo. Andiamo avanti. Sono esistiti più Pansa, quello del Vajont e dello scandalo Lockeed, quello del “Sangue dei vinti” e quello de “Il Dittatore”? L’apparenza farebbe dire si, la lettura vera no. Il rabdomante, la spasmodica ricerca della lettura delle “rottur e cazz”, la frequentazione dei palazzi che ti porta a fuggirli porta a frequentare i sentieri più impervi e improbabili. C’è un filo rosso, una coerenza di fondo. Quella del giornalista che, seguendo la stella polare, non può mai stare in silenzio. Aspro, a inanellare ogni giorno una rottura diversa, a non tacere mai. Il giornalista giornalista non ha appartenenze, non può – per dirla con il più tagliato e (solo apparentemente, perché la lettura si è sempre fermata alle prime tre righe) conosciuto editoriale di Pasolini – diventare potere e parlare o tacere secondo convenienza. Sempre, senza mai fermarsi. Il giornalista deve raccontare, deve porre domande, sferzare i benpensanti e i palazzi. Ci possono essere articoli dolorosi, che non vorresti mai scrivere, giorni in cui rompi anche con te stesso e nel tuo stesso mondo (ma esiste realmente un “mondo” a cui si appartiene?). Non vorresti mai farlo, metti in discussione e dilani prima te stesso ma devi. Pansa, al contrario dello stesso Giancarlo e di tanti altri, non è mai stato nel mio “album di famiglia”, non ne sono mai stato fedele lettore. Ognuno nella vita ha la sua strada, e le mie sono state altre. E tante volte sono stato in disaccordo, non ho condiviso quel che scriveva e diceva. Non capirò mai perché una penna servente di ogni padrone, un arlecchino sempre alla ricerca di nuovi poteri, un pronista dei peggiori, sia stato apostrofato e sferzato sull’aspetto fisico. E’ una cosa che non accetterò mai, da nessuno. Lo avessi avuto davanti a me probabilmente ci saremmo scontrati subito, avremmo polemizzato per ore e ore. E per la mia naturale, irritante, insopportabile vocazione di rompicoglioni avrei avuto da dirne di ogni tipo. Ma il giornalista non deve essere accomodante, con nessuno, il giornalista non deve essere simpatico, non deve seguire logiche di “questo mondo”. Un giornalista che non dà fastidio, che non si rende incomprensibile alle appartenenze, che non fa incazzare persino se stesso non è giornalista. In queste settimane corre l’anniversario di un evento che ha segnato questi nostri falsi e disumani anni, su cui troppi hanno squallidamente speculato, per poi dimenticarlo: l’attentato a Charlie Hebdo. Diverse loro vignette non le ho mai condivise, mi urtavano, non le ho mai comprese, li avrei sfanculati volentieri dopo averle viste. Ancor più per questo li ho pianti, li ho considerati un patrimonio anche per la mia libertà, li ho apprezzati. La satira e il giornalismo giornalismo non vanno apprezzati perché ti adulano, perché scrivono e disegnano quel che ti piace e vorresti. Ma per l’esatto opposto, è l’essenza del rabdomante che non troverà mai pace, che non giungerà mai alla meta. E, per questo, deve navigare e cercarla.