Dobbiamo rimanere in casa perché il sistema sanitario è vicino al collasso. E la sensazione più o meno diffusa è che, oltre il covid19, la vera emergenza è quella sanitaria, è quella delle carenze ospedaliere. In queste settimane abbiamo sono state anticipate sessioni di laurea, richiamati medici in pensione, sfornati bandi per migliaia e migliaia di nuovi posti di lavoro per medici o infermieri, stanziati fondi milionari per le infrastrutture.
Si moltiplica da settimane, per chi può essere stato in contatto con persone risultate positive al coronavirus, l’attenzione al rispetto degli obblighi di quarantena che, se violati, portano a conseguenze rilevanti sul piano penale. Le persone poste in quarantena sono monitorate con l’applicazione di rigidi protocolli e la sorveglianza attiva da parte delle ASL.
Ma in Regioni come Veneto, Marche e Abruzzo (a seguito dell’ordinanza regionale numero 3 del 9 marzo) è stato disposto che il personale sanitario «venuto in contatto con paziente affetto da COVID-19» prosegua l’attività lavorativa.
Ma perché la nostra sanità pubblica è vicina a non reggere? La cifra principale la fornisce un nostro articolo dell’11 marzo (https://www.wordnews.it/rafforzare-la-sanita-pubblica): solo negli ultimi 10 anni alla sanità pubblica sono stati tagliati 37 miliardi.
Negli ultimi vent’anni è stato smantellato il 15% degli ospedali italiani e il 32% dei posti letto. L’Italia è nettamente al di sotto della media Ocse per posti letto negli ospedali ogni mille abitanti, crollata dai 4,7 del 2000 a 3,2.
La Corea del Sud – tanto citata in queste settimane – li ha aumentati negli anni scorsi fino addirittura ad arrivare al quadruplo di quelli italiani, la Francia ha 6 posti letto ogni mille abitanti, la Germania 8.
La situazione è altrettanto drammatica per la frontiera più importante di queste settimane: le terapie intensive dove i posti letto sono stati ridotti negli anni dei 2/3 arrivando ad essere la metà di quanti sono disponibili in Francia e Germania.
Il totale quadro impietoso della situazione è fornito dal rapporto della Fondazione GIMBE sulla “sostenibilità del servizio sanitario nazionale”, l’ultimo è stato presentato l’11 giugno dell’anno scorso e la situazione appariva già chiarissima anche se il covid19 era ben lontano dall’esistere. In un paese con un’età media sempre più alta e che subisce un gravissimo disastro ambientale (come abbiamo ricordato in un articolo dei giorni scorsi https://www.wordnews.it/i-sentieri-delle-bombe-sanitarie-ditalia ), il dato sul massacro dei fondi alla sanità pubblica diventa ancora più grave davanti ad altri fatti e statistiche. Nel Rapporto viene riportata la «cronistoria del definanziamento del SSN», dal dicembre 2012 al 9 aprile 2019, molte delle riduzione di fondi (e tra i più massicci) sono avvenute per esigenze di bilancio e contabilità.
Il 4 febbraio 2020 l’Anaao Giovani ha evidenziato che, dal 2010 al 2017, i medici nelle strutture pubbliche sono diminuiti del 9,5% mentre nel settore privato c’è stato un aumento del 15%. La principale organizzazione sindacale del mondo sanitario ha denunciato che «il personale che opera negli ospedali pubblici, oltre ad esser sottoposto a carichi di lavoro eccessivi per carenza di personale, è sempre più a rischio di burn-out, sempre più stressato, sfiduciato, depresso anche per via dell’elevato rischio medico legale» e il pensiero corre subito allo scatto diventato virale nei giorni scorsi (nella foto) di un’operatrice sanitaria crollata sulla tastiera del computer, diventata simbolo dell’emergenza nazionale, «e non per ultimo demotivato dalla mancanza di un contratto collettivo di lavoro, il cui rinnovo ha visto la luce solo di recente dopo dieci anni di stallo, da un blocco delle carriere e delle retribuzioni. Per questi motivi, in molte Regioni italiane, diversi concorsi in discipline come la medicina e chirurgia d’urgenza e accettazione, l’anestesia, la pediatria e la chirurgia, sono andati deserti o non è stato possibile reclutare un numero adeguato di personale medico per colmare le esigenze di organico».
Negli anni rampanti della DC la sanità è stata sfruttata come bacino di consenso elettorale e clientelismo, sostenendo sempre più rendite di posizione e un ceto parassitario dell’interesse pubblico.
Basta scorrere le cronache di questi ultimi lustri per trovare in moltissime Regioni scandali e inchieste della magistratura che hanno portato all’emersione di mazzette, favori, sistemi di potere in cui squallide consorterie hanno piegato gli interessi pubblici agli affari dei padroni delle cliniche private. Nei mesi scorsi si è tornato a parlare di Roberto Formigoni per la campagna che ne chiedeva la fine della detenzione carceraria, il caso lombardo è probabilmente il più conosciuto ma non è certamente l’unico.
Nell’articolo del nostro direttore si riportava la situazione molisana; in Abruzzo la data fondamentale è il 14 luglio 2008 quando l’allora presidente della Regione Ottaviano Del Turco fu arrestato dalla guardia di finanza per quella che fu definita la «sanitopoli» abruzzese: l’accusa era di mazzette a politici di destra e centrosinistra per favorire alcune cliniche private. Il processo conseguente è andato avanti per 9 anni fino alla condanna del 27 settembre 2017 in Corte d’Appello a Perugia, quando Del Turco fu assolto dall’accusa di associazione a delinquere, e quella definitiva in Cassazione dell’ottobre 2018. A margine dell’intera vicenda non si può dimenticare un dato che dovrebbe far riflettere: dal 1° agosto 1990, quando fu eletto governatore Rocco Salini (sostenuto all’epoca da democristiani, socialisti e liberali) al 23 febbraio 2019, giorno dell’elezione dell’attuale governatore Marco Marsilio, si sono succedute 7 giunte di cui 5 hanno visto propri esponenti finire nelle inchieste della magistratura per la gestione di quello che dovrebbe essere l’interesse pubblico.
Durante l’inchiesta della Guardia di Finanza sulla «sanitopoli» abruzzese uno dei dati più rilevanti emersi era che fino al 2005 la sanità pubblica abruzzese aveva accumulato debiti per almeno 682 milioni di euro. Il seguito è cronaca di questi ultimi dodici anni: commissariamento con piani di rientro lacrime e sangue e massiccia chiusura di ospedali in tutto il territorio regionale (in questi giorni diversi sono stati gli appelli a riaprirne alcuni per fronteggiare l’emergenza coronavirus, finora caduti sostanzialmente nel vuoto).
Nei mesi scorsi Marie Helene Benedetti, madre di un bambino autistico, per vedere garantite (come stabilito anche da una sentenza di tribunale) le giuste teparie al figlio è arrivata a minacciare lo sciopero della fame incatenandosi davanti la sede della Regione Abruzzo. Punta dell’iceberg di una situazione che coinvolge tutta la Regione, la notizia dell’ultimo ricorso, del 9 marzo scorso (sempre per l’assistenza ad un ragazzo autistico) vinto a Teramo da una famiglia.
Ripercorrere tutte le tappe del depotenziamento, con piani di chiusure e riduzioni, della sanità abruzzese è pressoché impossibile in un unico articolo. Ma alcuni fatti da soli restituiscono il quadro generale.
Nel 2019, mentre Marie Helene e tante altre famiglie si sono dovute battere allo stremo per vedere riconosciuti i diritti dei propri familiari, sono stati aumentati a dismisura gli stipendi di supermanager prima ancora che entrassero in carica, la Regione Abruzzo non ha abolito il cosiddetto super ticket e neanche dopo il cambio della giunta si è messo in discussione un progetto come il project financing per la costruzione di un nuovo ospedale tra Chieti e Pescara, che di fatto favorirà solo il privato che vincerà l’aggiudicazione e ha già visto milioni di euro pubblici spesi prima ancora che ci fosse la certezza che quest’ospedale possa realmente nascere.
Il 3 agosto 2019, nel silenzio di quasi tutte le forze politiche, il segretario nazionale di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo ha denunciato quello che ha definito un nuovo «regalo alla sanità privata»: con la delibera di giunta 348 del 18 giugno la giunta Marsilio ha diminuito le regole per le cliniche private, «viene cancellata una norma utile per la trasparenza e il controllo come l’obbligo per le cliniche di fornire alle Asl i dati giornalieri sui ricoveri e sulle dimissioni dei pazienti; viene prevista una normale oscillabilità del 20 per cento del fatturato che non ha più carattere occasionale ed eccezionale, si aumentano prestazioni e basta senza motivate esigenze e senza dover richiedere l’autorizzazione della Asl».
Il «ruolo» delle cliniche private, che ci si dovrebbe aspettare massiccio visti i cospicui finanziamenti pubblici (che attualmente dovrebbero essere nell’ordine di 141 milioni di euro dalla Regione Abruzzo) e quanto abbiamo già riportato, nell’attuale emergenza sanitaria si è evidenziato con il tour tra ospedali del «paziente zero» abruzzese proveniente da Città Sant’Angelo: dall’ospedale di Penne (oggetto di tagli e declassamenti in questi anni) è stato trasferito a Pescara partendo da Città Sant’Angelo dove, però, è presente una delle maggiori cliniche private della Regione.
L’ultima denuncia di draconiani tagli alla sanità abruzzese è del 14 dicembre scorso da parte del consigliere regionale di opposizione Domenico Pettinari del Movimento 5 Stelle: 78 milioni di euro per colmare un buco economico che l’anno prossimo dovrebbe raggiungere i 70 milioni, tagli che porteranno ad una diminuzione dei ricoveri, 15 milioni in meno per i farmaci ospedalieri; 3,7 milioni in meno per i farmaci convenzionati; 15,2 milioni in meno per i dispositivi medici in dotazione ai reparti ospedalieri di cui 10,4 per strumentazioni come Tac ed ecografi. La risposta dell’attuale giunta regionale è stata con l’assessore regionale alla sanità Verì secondo cui i 78 milioni saranno di risparmi per «una profonda riorganizzazione di tutti i processi» e del consigliere di maggioranza Ottavi (Forza Italia) sui 70 milioni di euro di debito che sono stati «lasciati in eredità all’attuale governo regionale».
Il rapporto GIMBE in chiusura si dedica anche alla questione dell’autonomia differenziata. In queste settimane è stato spesso lanciato l’allarme sul sistema sanitario delle regioni del sud davanti all’avanzare del covid19, secondo la Fondazione l’autonomia differenziata «rischia di amplificare le diseguaglianze di un servizio sanitario nazionale, oggi universalistico ed equo solo sulla carta» e « non potrà che legittimare normativamente il divario tra Nord e Sud, violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini».
Parole che confermano la denuncia sulle nostre pagine di Marina Boscaino del Comitato nazionale contro l’autonomia differenziata https://www.wordnews.it/lautonomia-differenziata-colpira-la-costituzione-e-i-piu-deboli
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2020-03-14 18:57:44
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