Alla vigilia dell'unificazione, sono già presenti i primi sintomi di un fenomeno che di lì a pochi anni sarebbe esploso in tutta la sua specifica evidenza, fino a guadagnarsi un nome, quello di mafia, che servisse a distinguerlo da fenomeni analoghi e in particolare dalle forme comuni di delinquenza. La situazione di disordine e di confusione, che caratterizza la vita di alcune zone dell'Isola, e l'affermazione, sempre più incisiva, di un potere informale in contrasto con quello statale, incapace di imporre la sua forza legittima, vengono denunciati con chiarezza dal Procuratore di Trapani Pietro Calà Ulloa in un suo rapporto del 1838 al Ministro della giustizia «Non vi ha quasi stabilimento» scrìve Ulloa «che abbia dato i conti dal 1819 a questa parte, non ospedale o ospizio che avendoli dati li abbia visti e discussi; così non vi ha impiegato che non si sia prostrato al cenno e al capriccio di un prepotente, e che non abbia pensato al tempo stesso a trar profitto dal suo uffìzio.
Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora di incolpare un innocente.
Sono tante specie di piccoli governi nel governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero di reati. Il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei. Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione nel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto- meglio divenire oppressori che oppressi, e s'iscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di una egida impenetrabile».
Nello stesso periodo di tempo, il Procuratore generale di Palermo Giuseppe Ferrigno denunciava, anche lui in una relazione al Ministro della giustizia, la situazione di precarietà e di inefficienza dei servizi di pubblica sicurezza, mettendo in evidenza come le cause del disordine sociale e delle manifestazioni sempre più frequenti di prepotenza e di sopraffazione fossero riconducibili soprattutto «alla mancanza di fortuna del terzo ceto, che lo rendeva dipendente dalla nobiltà». È una diagnosi sostanzialmente analoga a quella espressa da Lodovico Bianchina, affiancato dal Re al Luogotenente Laurenzano, con l'incarico di aiutarlo nel preparare la riforma della Pubblica amministrazione in Sicilia. Anche Bianchini si mostra specialmente preoccupato dell'inefficienza degli organi di pubblica sicurezza e della pratica invalsa nelle compagnie d'armi di ricorrere a patteggiamenti e ad accordi con i delinquenti e specie con d ladri.
Si era arrivati al punto – avrebbe scritto più tardi lo stesso Bianchirli in una storia di quegli anni («Un periodo di storia del Reame delle due Sicilie dal 1830 al 1859») – che «gli uomini di armi, la più parte senza disciplina e di scadente morale, in diversi luoghi partecipavano ai furti che si commettevano ed inoltre non impedivano, anzi facevano quelle turpi convenzioni sotto nome di componende, sinonimo di ricatto, che annualmente facevansi fra famigerati ladri e i proprietari per le quali costoro corrispondevano a quelli una data somma di denaro per evitare d'essere violentemente derubati»; ed erano guai per quel proprietario «che non prestavasi a siffatte convenzioni, che i suoi poderi sarebbero distrutti o incendiati ed ucciso il bestiame, senza che la giustizia facesse il suo corso ed i rei fossero menomamente preseguitati o puniti. Quindi i proprietari nel difetto delle istituzioni e nella impotenza delle leggi, e della potestà, paventando delle vendette sia dei ladri, sia degli stessi uomini d'arme, non osavano muovere doglianze».
Non potrebbe essere più precisa di quanto sia nei documenti citati la descrizione dei prodromi o meglio ancora delle prime manifestazioni della mafia nelle regioni occidentali della Sicilia. Anche se il suo nome è ancora sconosciuto alle cronache, emergono già negli ultimi anni della dominazione borbonica i caratteri più significativi del fenomeno mafioso. Emergono cioè i segni di un potere extralegale, che tende ad affermarsi, rispetto a quello statale, mediante l'esercizio di una protezione più efficace di quella pubblica, col ricorso a forme rapide e persuasive di autogiustizia, infine con la ricerca costante di una legittimazione nella coscienza sociale.
«Sono tante specie di piccoli governi nel governo», dice incisivamente Calà Ulloa a proposito delle sette o fratellanze fiorite nella zona di Trapani ed aggiunge che «il popolo è venuto a tacita convenzione con i rei», sottolineando così come l'accettazione del potere mafioso da parte della comunità sia fin dall'inizio la nota più caratteristica del nuovo fenomeno. La debolezza e le carenze del potere statale sono all'origine di questo rapporto tra la mafia e le popolazioni locali; l'inefficienza, la corruzione, le complicità degli organi pubblici ne favoriscono le ramificazioni, e ne spiegano, in termini politici, l'estensione e la profondità, mentre la fragilità costituzionale del ceto medio siciliano e la sua condizione di dipendenza dalla nobiltà, e cioè, dal ceto dei proprietari terrieri, ne costituiscono — come ben intuisce Ferrigno — la matrice sociale ed economica. Non manca ormai che il nome perché la mafia diventi, anche formalmente par la coscienza sociale, uno dei tanti problemi, che travagliano, fin dal momento della sua formazione, lo Stato unitario.
La parola mafia, le sue origini, il suo significato.
Secondo l'opinione corrente, la prima volta che la parola mafia venne pubblicamente riferita a un'associazione di delinquenti fu nel dramma popolare di Giuseppe Rizzotto «I mafiusi di la Vicaria di Palermo» rappresentato a Palermo nel 1862 e replicato successivamente in tutta Italia con grande successo. L'opera teatrale descriveva le bravate di un gruppo di detenuti delle carceri palermitane
(allora note col nome di Vicania) e metteva in evidenza come essi godessero di uno speciale rispetto da parte dei compagni di prigione, appunto perché mafiosi, membri come tali di un'associazione a delinquere, con gerarchie e con specifiche usanze, tra le quali veri e propri riti di iniziazione.
In precedenza, il termine mafia veniva usato in Sicilia e anche in altre regioni con significati diversi. Così, in Toscana, la parola significava «povertà» o «miseria», mentre in Piemonte con l'analoga espressione «mafàum» s'indicavano gli uomini gretti. In Sicilia, invece, e specialmente nel palermitano, prima della commedia di Rizzotto, la parola mafia veniva impiegata nel senso di audacia, arroganza, o di bellezza, baldanza e, attribuita ad un uomo, stava ad indicare la sua superiorità, donde – scrisse Pitrè – «l'insofferenza della superiorità o peggio ancora della prepotenza altrui».
Successivamente, quando la parola fu definitivamente collegata al fenomeno sociale che oggi va sotto il nome di mafia, non mancarono i tentativi degli studiosi per individuarne l'etimologia più lontana. Molti autori la fanno derivare dall'arabo «mahìas», che significa spavalderia, orgoglio, prepotenza, oppure da «Ma afir», come si chiamava la stirpe saracena che dominò Palermo.
Una altra teoria invece fa risalire la parola al termine arabo «màha» (che si pronuncia mafa), e col quale si indicavano le immense cave di pietra, in cui si rifugiavano i saraceni perseguitati e che offrirono poi ricetto, al riparo dalla polizia, anche ad altri fuggiaschi. In particolare, in queste cave di pietra si sarebbero rifugiati nel 1860 a Marsala i simpatizzanti di Garibaldi, per attendere nelle «mafie» l'arrivo di colui che li avrebbe liberati dall'oppressione borbonica, così che taluni li avrebbero chiamati «mafiosi», cioè gente delle mafie.
Il problema etimologico comunque è di scarso rilievo ai fini che qui interessano. È più importante sottolineare che, dopo la rappresentazione del Rizzotto, e quindi all'indomani dell'Unità d'Italia, la parola cominciò ad essere usata, a tutti i livelli, solamente per designare quei caratteristici fenomeni di delinquenza o più genericamente di devianza sociale che andavano allora emergendo e che negli anni successivi avrebbero assunto contorni sempre più netti.
Presto il termine penetrò anche nel linguaggio burocratico e secondo gli storici i primi documenti ufficiali in cui venne usato nel senso indicato furono un rapporto del 25 aprile 1965 del prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualtiero, al Ministro dell'interno e i rapporti riservati che in quello stesso anno vennero inviati al prefetto Gualtiero da diversi informatori. Nel suo rapporto, il prefetto Gualtiero identifica esplicitamente la mafia con «una associazione malandrinesca» e sottolinea inoltre come la sua caratteristica peculiare fosse ravvisabile nell'esistenza di stretti collegamenti tra i mafiosi e i partiti politici.
La precisazione ovviamente ha soltanto una finalità pratica, quella di favorire, attraverso un'operazione di polizia, la penetrazione in Sicilia dell'ideologia e della prassi moderata di governo. Secondo Gualtiero, infatti, la mafia aveva rapporti con i gruppi borbonici ancora operanti in Sicilia e con i gruppi garibaldini d'opposizione e perciò combattere l'organizzazione delittuosa significava in definitiva reprimere ogni forma di ribellione e in particolare screditare il passato patriottico e i motivi ideali che animavano sulla sinistra il partito garibaldino.
Ma il rapporto del prefetto Gualtiero, anche se si presenta come un tentativo di distorsione a scopi politici di una dolorosa realtà sociale (negli anni successivi se ne troveranno esempi analoghi e forse più significativi), conserva tuttavia un preciso valore storico, appunto perché documenta, con l'uso specifico del nome, l'avvenuta nascita di quel fenomeno extralegale di violenza criminosa che è la mafia siciliana.
2 parte/continua
Commissione d'inchiesta sul fenomeno delle mafie, VI legislatura, 4 febbraio 1976
Per approfondimenti:
Prima parte, venerdì 27 marzo 2020: MAFIA, le origini remote
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